di Marco Marino
Giovanni Sollima ha portato a Marsala il suo laboratorio mefistofelico. È successo sabato 24, alla Plateia Aelia del Parco Archeologico di Lilibeo. Il musicista di fama internazionale, figlio del compositore di origini marsalesi Eliodoro Sollima (a cui è intitolato il teatro comunale della città), ha stregato i numerosissimi accorsi con il suo concerto BaRock Cello: un itinerario all’interno della storia della musica, in cui tutte le grandi stagioni del suono, dal Barocco ai Nirvana, sembravano convivere, scontrarsi e confluire sulle corde del suo violoncello, nello spazio di una stessa esecuzione.
L’evento rientra nella rassegna concertistica Oltre il tramonto, inaugurata a luglio grazie all’intesa tra il Parco Archeologico, l’Ente Luglio Musicale Trapanese e Gli Amici della Musica di Palermo. Quest’estate, in terra lilibetana, si comincia a respirare un’aria diversa. Che promette cambiamenti.
E nell’attesa che quest’aria si diffonda, noi abbiamo avuto modo di conversare con Giovanni Sollima. Di parlare del rapporto che lo lega a Marsala, della sua idea di musica e del suo impegno civile.
Marsala è la città di suo padre. Ed è il luogo in cui ha trascorso le estati della sua infanzia. Cosa significa per lei ritornare a suonare qui?
Rispondo a brandelli di emozioni. È un’esperienza forte. Marsala è una città che mi appartiene molto: l’infanzia, il papà e in questo momento c’è questo tramonto incredibile … Non so quand’è stata l’ultima volta che ho suonato qua, qualche anno fa credo, oggi infatti non trovavo la strada, e per ritrovarla ho dovuto riallacciarmi a ricordi d’infanzia. È un andare a ritrovare ricordi. O forse soprattutto sensazioni. Legate alla nostra vita privata, alla nostra crescita, una crescita voluta distante da questo luogo. E i luoghi distanti si idealizzano e idealizzandoli diventano vicini. Marsala è un’immagine quasi mitologica. Onirica, sicuramente.
È un ricordo legato anche alla sua iniziazione musicale.
Ovviamente la musica c’è, c’è tutta la vicenda artistica di papà, che qui a Marsala è stato direttore artistico: negli Settanta/Ottanta lavorava per portare in città grandi artisti. Mentre poggiavo il violoncello in camerino, mi sono ricordato di un concerto di tanti anni fa di Rocco Filippini con Bruno Canino, proprio qua a Marsala. Mi sono ricordato il gesto di Filippini che poggiava su un tavolo il suo Stradivari.
Il suo concerto BaRock Cello connette musica classica e musica contemporanea, Bach e Jimi Hendrix. Cosa l’ha spinta a lavorare su questo innesto?
L’ho fatto per una questione drammaturgica, dinamica. E l’ho fatto iniziando per gioco, fino a quando questo BaRock Cello non è diventato - ora dico una parola non simpaticissima - un “format”. Un contenitore dentro il quale vai variando ogni volta l’ordine dei pazzi ma anche i pezzi stessi. Da una parte c’è la passione per la musica che ha una sua struttura, ma dentro è informale, come il Rock, una musica quindi che conosciamo tutti, che gravita nelle nostre vite e che mi piaceva suonare al violoncello. Dall’altra parte c’è questa ricerca che ho fatto sulla musica antica per violoncello: in certi momenti storici i componimenti avevano una struttura informale scritta con sigle non dissimili da certe canzoni dei Pearl Jam o dei Nirvana. Mentre suonavo cominciavo ad accorgermi di questa cosa e ho pensato che queste due realtà erano identiche sia sul piano strutturale che sul piano comportamentale cioè su quel margine di improvvisazione che deve esserci dentro questi lavori, seppur con regole diverse. Due strade parallele, che si incrociano, si scontrano, o che vanno insieme. S’è creata questa sorta di drammaturgia, anche abbastanza libera. Che mi consente di modificarla. Ogni luogo ha una sua forza, mi dà un input diverso, ecco perché non faccio un programma se prima non vedo dove suonerò.
Stasera cosa le ha suggerito il Parco Archeologico?
Questa sera inserisco un pezzo di papà in una versione monodica, che credo abbia scritto qui a Marsala perché è un pezzo giovanile, molto giovanile. E non l’ho mai suonata in questa versione. Lo faccio stasera. M’è venuto stamattina e ho detto: chissà! Poi sono arrivato qua, ho visto il tramonto che iniziava e … ho avuto la conferma di farlo. Poi tra il Barocco e il Rock ci sono dei brani miei, che in qualche modo mettono insieme queste due radici.
Non è facile immaginare il Barocco e il Rock legati da radici comuni...
Tra il Barocco e il Rock c’è una radice fortemente popolare, alcuni brani barocchi hanno un suono e un approccio di natura popolare. Per esempio, un certo Giulio de Ruvo, un violoncellista pugliese del tardo Seicento, che poi s’è formato a Bologna, nelle sue composizioni ha messo insieme due culture diverse: la scuola dotta, e quasi rigida, d’ambiente bolognese con le tarantelle e le pizziche della sua terra.
Era forse anche un modo per portare con sé le sonorità con cui era cresciuto. Anche a lei succede di inseguire nelle sue composizioni le sonorità delle sue origini mediterranee?
Non sono solo mediterranee, ma certo sono molto importanti. Molti anni fa a Lampedusa ho capito che che non potevo fare più il turista. Dagli sbarchi arrivavano dei canti bellissimi, ma tanti, e ogni uomo portava un canto, il proprio canto, nella sua testa, nella sua mente, in un angolo del cervello: erano di una forza emotiva straordinaria. Sbarcavano con questi canti, e l’unica cosa che ho voluto fare è stato raccoglierli. Una cosa che i politici non hanno mai capito: il canto unisce, rivela profonde contiguità. Come diceva Komitas - era un musicista armeno, che ha raccolto i canti degli armeni, li ha salvati dal genocidio -, il canto popolare è tutto uguale in una certa fascia del pianeta. E indicava proprio la nostra fascia. Ma molti nel passato l’hanno capito. Vivaldi l’aveva capito, per esempio. Tant’è che lui, all’epoca della Repubblica di Venezia, viaggiava per i Balcani, ne risente la sua musica.
Citava Lampedusa e gli sbarchi. Tutti ricordiamo nel 1993 il suo esordio con un Requiem per le vittime di mafia. La sua produzione è sempre attraversata da una linea civile.
Viviamo il nostro tempo. Siamo parte di quest’epoca. Poi c’è chi sceglie di stare dentro una bolla di cristallo. Io la bolla l’ho intravista: s’è rotta immediatamente. Non c’è mai stata. E per questo in realtà la reattività al presente è necessaria. Con la musica non cambi il mondo. Non è questo il suo compito. Però puoi mettere la pulce nell’orecchio di chi ti ascolta e la musica rischia meno delle parole di soffrire di retorica. Così è nato il mio progetto di 100 violoncelli dentro l’occupazione del Teatro Valle di Roma ... non sono solo, siamo cento. Anche di più. Credo seicento, adesso, tra le varie edizioni.
Un’ultima curiosità. C’è stato un premio Pulitzer che l’ha definita il “Jimi Hendrix del violoncello”. Ma perché ha scelto proprio questo strumento per esprimere sé e la sua musica?
A suo tempo il premio Pulitzer s’era perso in un bicchiere d’acqua. Era un modo per etichettare … oggi però capisco anche il perché. La mia curiosità mi ha portato a suonare moltissimo e moltissimi “generi”. Tanti hanno inteso ciò come una patologia: la mia patologia è la mia curiosità. Per me uno strumento come il violoncello, che è un pezzo di legno indifeso con quattro corde, è una zattera. Puoi galleggiare, navigare, andare ovunque, perché no?, puoi attingere a tutto. E se a un suono come quello del violoncello, che è un suono abbastanza umano, alzi un po’ il livello di pathos, se oltrepassi questa soglia, diventa una chitarra elettrica a tutti gli effetti.