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06/09/2019 22:00:00

Peppino Impastato, il casolare in cui venne ucciso diventerà bene pubblico

Una vita spesa fra l’impegno politico a favore dei più deboli e la lotta ai boss del suo paese, alle porte di Palermo. Costi quel che costi, sfidando mafiosi del calibro di Gaetano Badalamenti sino a essere così temuto da venire ucciso barbaramente, a soli 30 anni, nella notte fra l’otto e il nove maggio 1978. Adesso l’edificio di Cinisi in cui fu ritrovato il suo corpo dilaniato diventerà un bene pubblico, un luogo della memoria. La giunta regionale siciliana, su proposta del governatore Nello Musumeci, ha completato l’iter burocratico per procedere all’espropriazione dell’immobile e del terreno circostante, già dichiarato di interesse culturale con decreto di vincolo del 12 agosto 2014. «Peppino Impastato — ha spiegato Musumeci — rappresenta un simbolo della Sicilia onesta che ha combattuto e deve continuare a combattere la criminalità mafiosa e il malaffare. Una figura che, oltre le diversità delle appartenenze politiche, costituisce un esempio di denuncia e di coraggio, soprattutto per le giovani generazioni».

Il riscatto dal padre mafioso
La storia di Impastato, fondatore di Radio Aut, è ancora più rimarchevole se si considera che si tratta di un riscatto civile: il padre Luigi era stato accusato di far parte della «piovra», tanto da finire al confino a Ustica. Sua zia si era sposata con il capomafia Cesare Manzella (poi ucciso nel 1963 con un’autobomba imbottita di tritolo) e il papà stesso era amico di Tano Badalamenti, ex vaccaro e poi «signore» mondiale della droga. Peppino, insomma, era nato respirando mafia e omertà. «Arrivai alla politica – scrive lui stesso – nel lontano novembre del 1965, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare divenuta ormai insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto, con connotati ideologici tipici di una società tardo-contadine e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, fin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte ed il suo codice comportamentale. È riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva ed a compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività. Approdai nel Psiup con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuol rompere tutto e cerca protezione». Proprio il rapporto sempre più conflittuale con il padre è stata la molla per detestare la cupola con tutte le sue forze. Luigi lo caccia più volte da casa perché rompeva tanti tabù contemporaneamente: ridicolizzava con la sua ironia tagliente i mafiosi e i politici conniventi e omertosi. «Messaggi» plateali in codice per tranquillizzare i mafiosi di Cinisi che, però, si rivelarono del tutto inutili perché Peppino continua con i volantini in cui accusa Badalamenti di trafficare con la droga e le decine di inchieste sui mafiosi, durante la trasmissione «Onda pazza» trasmessa dai microfoni di Radio Aut. Parole e accuse che per i mafiosi erano fumo negli occhi tanto da volerlo uccidere. Solo a quel punto, il padre Luigi dirà: «prima di ammazzare lui, debbono ammazzare me». Invece, lui muore in un incidente d’auto mai chiarito e per Cosa nostra non c’è più alcun ostacolo. Peppino viene assassinato, nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, mentre impazzava la campagna elettorale per le Comunali, con una carica di tritolo posta sotto il suo corpo adagiato sui binari della ferrovia. Per una strana coincidenza del destino, sempre quel giorno a Roma viene trovato il corpo di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate rosse. Una notizia che fa il giro del mondo e quella del giovane militante passa in secondo piano.

Le indagini controverse
Gli inquirenti fanno trapelare che potrebbe trattarsi, addirittura, di un atto terroristico in cui Impastato stesso sarebbe rimasto vittima. Il fonogramma sostiene: «Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda. Verso le ore 0,30-1 del 9.05.1978 persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificata in tale Impastato Giuseppe si recava a bordo della propria autovettura all’altezza del km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore». Alcuni amici di Peppino sono interrogati per ore perché sospettati di complicità e le case della madre e della zia di Impastato sono sottoposte a perquisizione. La società civile però non ci sta, lo eleggono al consiglio comunale anche da morto e al suo funerale partecipano un migliaio di persone da tutto il Palermitano. Due giorni dopo il Centro siciliano di documentazione di Palermo, anni dopo intitolato a Impastato, presenta una denuncia in Procura sostenendo che Peppino non è morto suicida ma è stato assassinato. Umberto Santino, fondatore del Centro, durante un comizio, lo stesso giorno, accusa Tano Badalamenti e i mafiosi di Cinisi di essere i responsabili del delitto. Il 16 maggio la madre di Peppino, Felicia Bartolotta e il fratello Giovanni, presentano una seconda denuncia alla Procura indicando proprio nel boss di Cinisi il mandante dell’omicidio. Sarà proprio l’instancabile sete di giustizia del fratello Giovanni e della madre Felicia a tenere «viva» la pista mafiosa.

Il lungo iter processuale e le condanne
Bisognerà attendere il 1984, perché l’allora consigliere istruttore Antonino Caponnetto emetta una sentenza in cui si legge nero su bianco l’ombra della cupola dietro la morte di Impastato. Arriverà solo nel gennaio 1988, la prima comunicazione giudiziaria del Tribunale di Palermo a Badalamenti ma, nel 1992, si chiude il tutto con l’archiviazione malgrado sia ribadita la matrice mafiosa. Dopo numerose istanze del Centro Impastato, della madre e del fratello si arriva all’ordine di cattura per Tano Badalamenti emesso nel 1997. Un nuovo pentito lo accusa di essere stato il mandante dell’omicidio. In aula nel 2000 Felicia Bartolotta attaccò duramente il boss che ascoltava in videoconferenza dagli Usa dove era detenuto: «Badalamenti lu fici ammazzari. È lui l’ assassino di mio figlio». Quindi, il 5 marzo 2001 la Corte d’assise ha condannato Vito Palazzolo a 30 anni di carcere mentre l’11 aprile 2002 a Gaetano Badalamenti è stato inflitto l’ergastolo. Più recentemente la procura di Palermo ha aperto un fascicolo per depistaggio. Secondo il Gip di Palermo Walter Turturici, le prime indagini sull’omicidio di Peppino Impastato si svolsero in un «contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative» e «la pista mafiosa venne aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente esclusa». In conclusione, per il magistrato ci sarebbero state «vistose, se non macroscopiche anomalie delle attività investigative». Nessuno degli inquirenti è stato, però, per via della prescrizione. Nel 2004 è morto il boss Badalamenti (è deceduto anche Palazzolo) e, qualche mese, è scomparsa anche la coraggiosissima mamma di Peppino che, però, ha avuto almeno riconosciuto che suo figlio non era morto suicida mentre compiva un’attentato terroristico ma era stato ammazzato dalla mafia per il suo coraggio: è ufficialmente uno dei tanti «santi» civili che dà onore alla Sicilia. Peppino, da morto, ha vinto la sua battaglia perché ha smosso le coscienze dormienti e impaurite di molti ma ha anche coronato il suo sogno professionale. Quando è stato dilaniato dal tritolo mafioso non aveva in tasca la tessera da giornalista perché non era iscritto all’albo. Secondo suo fratello Giovanni, lui voleva diventare proprio un cronista. Qualche anno fa, l’ordine dei giornalisti gli ha reso omaggio iscrivendolo nell’elenco professioni con una data simbolica: 9 maggio 1978. Peppino Impastato, oggi, è più vivo che mai perché cammina sulle gambe di migliaia di persone che oggi ne ricordano il suo esempio e rinnovano il suo famoso urlo di battaglia: «la mafia è una montagna di merda».

 

da Corriere.it