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21/09/2019 06:00:00

Lo scrittore e il detenuto. "Vento in scatola", un romanzo giallo nato in carcere

 di Mario Valentini


Inizialmente “Vento in scatola” sembra un resoconto – in bilico tra verità e finzione - di un'esperienza di carcere. Scritto da Marco Malvaldi con Glay Ghammouri e pubblicato da Sellerio, il risvolto di copertina ci informa del fatto che i due autori si sono conosciuti appunto presso il carcere di Pisa, dove Malvaldi ha portato avanti un corso di scrittura creativa che il detenuto ("a causa di un grave delitto") Ghammouri ha frequentato.


Lo stesso risvolto definisce il libro "commedia da camera", avvertendo che in questo caso la camera è molto estesa, è l'ambiente chiuso di un intero carcere, e che il libro "non ha niente di autobiografico pur avvalendosi di esperienze vissute".


Spulci un po' di notizie dalle note di copertina, dunque, intanto che continui a leggere. Poi, a fine lettura, il libro si rivela quel che a metà lettura avevi il sospetto che fosse: un vero e proprio romanzo giallo.


La trama inizialmente è un po' esile. Poi si va irrobustendo. Si dipana poco per volta, come a velocità ridotta. È ben gestita. Ti piace il modo in cui diversi paragrafi vengono montati, riproponendo nel paragrafo successivo una frase, un'immagine o una parola che chiude il paragrafo precedente, come a creare un incatenamento, mentre intanto si opera un netto stacco, un brusco passaggio di scena o di ambiente.


L'esperienza della detenzione la ritrovi tutta, nel libro: molti spunti di riflessione e esperienze dirette di vita in carcere, raccontate da chi sta dentro, da chi quei luoghi li attraversa ogni giorno e li conosce bene. Il libro, insomma, si legge con interesse e offre numerose informazioni sulla vita in condizione di detenzione, che non è facile recuperare altrimenti. Eppure il tutto ti sembra un po' troppo ripulito, disinfettato, igienizzato. E hai il sospetto che sia proprio la tramatura romanzesca, quel tono tipicamente anaffettivo e per tradizione scarsamente emotivo del giallo deduttivo o a enigma (che a un certo punto, in tutta la seconda parte, abbiamo detto che prende piede) a provocare questo effetto di igienico distacco rispetto ai luoghi, alle esperienze, al contesto, agli eventi narrati. Ti vien da pensare, insomma, che se il bello dei gialli metropolitani di Scerbanenco era una rara, potente capacità di narrare e descrivere un ambiente irreversibilmente infettato e corrotto, stucchevole è la dimensione di certi altri gialli in cui gli omicidi sembrano una breve parentesi in un mondo che sostanzialmente rimane incontaminato: come se fossero tuffi nell'acqua immobile di una piscina che nessun alito di vento agiterà mai. Finito il tuffo, passata quell'inaspettata e imprevista increspatura, quello specchio d'acqua ritorna fermo. E rimarrà così, intonso.


Dicevo, intanto che la storia va avanti e le vicende "gialle" si dipanano senza mai riuscire a infettare o contaminare nel profondo ambienti, eventi, personaggi della storia (la narrazione piuttosto prende la piega un po' più pacificata della commedia); mentre gli eventi pian piano si susseguono senza riuscire a scombinare o sgranare la resa stilistica del racconto, tante cose della vita in carcere le scopri.


Le poche ore d'aria concesse ai carcerati, la vita in una cella angusta in cui si cucina, si va in bagno, si lavano stoviglie a stretto contatto con altre quattro o cinque persone, senza nemmeno riuscire a muoversi. Le chiacchiere interminabili, la solidarietà, i conflitti violenti con i compagni di cella. L'abuso di alcuni carcerieri sui carcerati. La dimensione abusante dell'istituto di pena in sé, in quanto dispositivo in cui si esercita la forza della coercizione. Gli incontri e le amicizie pericolose con un camorrista che prima prova ad affiliare il protagonista del romanzo per utilizzare i suoi preziosi servigi e poi inizia a controllare ogni suo spostamento tramite i suoi scagnozzi, provando a impadronirsi della sua esistenza. I rapporti, sempre in bilico tra conflitto e allettamento, tra controllo e connivenza, che si instaurano con i secondini (che- avvertono gli autori- in carcere vengono sempre chiamati assistenti). L'amato calcio, rispetto al quale però si diventa esperti solo di Coppa Italia, perché è l'unica competizione che i carcerati riescono a seguire in chiaro sulle emittenti nazionali. E poi quel modo di orientarsi tra gli spazi chiusi degli istituti di pena. Quel progressivo rinunciare alla vista perché non si ha la possibilità di guardare spazi aperti e mettere a fuoco cose lontane ("il disturbo più diffuso in carcere non è la depressione ma, molto più banalmente, la miopia"). Per cui è l'udito il senso che maggiormente si sviluppa: è attraverso l'udito che si impara a prevedere i pericoli, che si apprende cosa avviene nei corridoi o in un'altra cella, che si riconoscono gli umori, le inquietudini, le tensioni e i conflitti pronti a esplodere nell'ambiente carcerario. E altri dettagli propri dell'organizzazione degli istituti di pena: il rancio immangiabile, la possibilità di farsi recapitare settimanalmente un "sopravitto" (una spesa aggiuntiva rispetto alla dotazione standard del carcere, di prodotti a scelta dei detenuti) e l'astrusa, sfiancante modulistica da compilare per una qualsivoglia, anche minima, richiesta il carcerato debba rivolgere all'Istituzione.


Mentre descrive molti aspetti della vita in carcere, intanto “Vento in scatola” struttura la sua dimensione più propriamente finzionale citando una storia classica di ambientazione carceraria. Una delle più belle: “Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank”, il lungo racconto di Stephen King raccolto in “Stagioni diverse”, da cui è stato tratto il film Le ali della libertà. È un procedimento parodico, in un certo senso, anch'esso tipico della commedia: si sfrutta uno spunto narrativo già noto e presente in un'altra opera, abbassandolo, addomesticandolo, facendolo deragliare verso altri esiti. Lì, in “Rita Hayworth…” di Stephen King, il protagonista era un bancario molto esperto in transazioni finanziarie, che doveva scontare il carcere a vita per l'omicidio (che con ogni probabilità non era stato lui a commettere) della moglie con l'amante (un giocatore di golf). Il bancario, Andy Dufresne, utilizzava le sue competenze finanziarie per ingraziarsi prima le guardie carcerarie, poi perfino il direttore del carcere e organizzare, sfruttando il buon trattamento e i privilegi ottenuti in questo modo, un'epica fuga. Qui, in “Vento in scatola”, il protagonista è un broker tunisino piuttosto truffaldino, che prima ottiene dei privilegi da parte delle guardie carcerarie grazie alle sue capacità di cuoco (nel giallo italiano pare sia impossibile non parlare di cibo e cucina, ti viene da pensare mentre leggi), poi utilizza le sue capacità di broker per stringere alleanza con alcuni agenti della polizia penitenziaria e inacastrare un camorrista.


Il romanzo mette in scena le relazioni tra detenuti, i reciproci racconti scambiati nelle lunghe ore passate in cella. Ma parla anche a lungo dello strano dialogo (o incastro) che si instaura con gli assistenti, con le guardie carcerarie. Il disagio è duplice: degli strani suicidi avvengono dall'una e dall'altra parte, perché il carcere segna le vite sia di chi lì dentro vi è detenuto sia di chi vi lavora.


Eppure al paesaggio manca qualcosa, come si è detto. Il chiuso contesto carcerario non ti arriva dritto, violento, messo a fuoco nell'interezza di tutti i suoi possibili contorni. Ed allora è come se durante la lettura si sentisse il bisogno di compensare quella che si percepisce come una leggera sfocatura dello sguardo attingendo ad altri tipi di resoconto per riuscire a capire con maggiore chiarezza come sia la vita dietro le sbarre. Si incomincia a cercare altrove qualche altro riferimento.


Sarà che il tuo livello d'attenzione si è fatto particolarmente acuto per via del libro che stai leggendo, ma inizi a ritrovare e selezionare tra le pagine dei giornali che compri, tra le riviste che sfogli, tra le storie che ascolti, tra i libri che hai in casa: articoli, servizi, report fotografici che parlano di carcere. Ed è così che il quadro si completa, il paesaggio diventa più nitido.


Alla fine isoli due titoli per completare quel quadro: uno di recente uscita, uno di ormai diciotto anni fa. Due reportage fotografici: “Prigionieri” di Valerio Bispuri, da poco pubblicato da Contrasto, e “Detenuti” di Mauro D'Agati, pubblicato da cal.co editore nel 2001.


Ma questa è probabilmente un'altra storia, che merita un articolo a sé. Intanto ora, qui, lasci quei titoli come due meri riferimenti bibliografici ripromettendoti di parlarne diffusamente al più presto.