Ormai prescritte alcune delle contestazioni più datate, relative ad una delle tre presunte vittime, è stata “limata” in appello (da un anno e mezzo ad un anno e 4 mesi di reclusione) la pena che nell’aprile 2018 il giudice Lorenzo Chiaramonte ha inflitto ad una coppia marsalese, i coniugi Filippo Angileri e Giovanna Curatolo, processata con l’accusa di maltrattamenti ai tre figli adottivi.
A difendere in appello la coppia marsalese è stata l’avvocato Cettina Inglese, che si dichiara “soddisfatta”, anche se prepara il ricorso per Cassazione, “convinta della totale innocenza degli imputati”.
I tre figli adottati sono arrivati a Marsala dalla Polonia nel 2004 e sia in primo grado che in appello sono stati assistiti dagli avvocati Laura e Salvatore Errera, che dichiarano: “Il reato rimane e la condanna pure. Non è facile dimostrare maltrattamenti in famiglia su tre minori che non avevano rete amicale. I tempi della giustizia hanno portato alla prescrizione solo di alcuni capi d’imputazione. Noi siamo soddisfatti perché giustizia è stata fatta, dispiace solo che i tempi della giustizia non tutelino le vittime. Le provvisionali del risarcimento danni sono confermate e ora procederemo all’esecuzione per i risarcimenti accordati alle povere vittime. La prescrizione spesso nega la giustizia alle vittime, ma nel caso di specie il reato rimane. Mi sarebbe piaciuto un atteggiamento diverso da parte dei genitori, diverso dal cantare vittoria rispetto alla prescrizione e voltare pagine nel rispetto di tre figli che hanno adottato. Provvederemo al risarcimento di tutti i danni come quantificati in sede penale e da quantificare in sede civile”. I tre bambini, ormai tutti maggiorenni, in Polonia era stati messi in un istituto di assistenza perché il padre era morto per un infarto e la madre, non avendo un lavoro, non poteva mantenerli. La svolta nella loro vita si presentò quando dalla lontana Marsala una coppia chiese di adottarli. Ma per i tre bambini, due femmine di 11 e 9 anni e un maschietto di 3, dopo “feste” della sera in cui arrivarono nella nuova famiglia (era il 2004), la vita si sarebbe trasformata in un autentico incubo. Per questo, all’età di 15 anni, la più grande scappò più volte da casa. Per questo, lo scorso anno, il giudice Chiaramonte, oltre ad infliggere un anno e mezzo di reclusione, condannò la coppia anche al pagamento delle spese processuali e al risarcimento danni da quantificare in sede civile. Ma con una “provvisionale” (risarcimento danni da pagare subito) di 24 mila euro. La coppia, che abita in contrada Cuore di Gesù, è stata processata con le accuse di maltrattamenti, lesioni e minacce. “Arrivammo di sera e ci fecero un po’ di festa – dice la più grande, che adesso ha 26 anni – ma l’indomani la nuova mamma ci diede subito scopa e paletta e ci disse di iniziare a pulire…”. Ma i tre figli adottivi non sarebbero stati solo costretti a fare le pulizie. Sarebbero stati anche picchiati e minacciati. Non avrebbero potuto, inoltre, frequentare coetanei, parlare la lingua della loro nazione d’origine e sarebbero stati costretti a vivere in un garage “per non sporcare la casa e non mettere disordine”. Poco interessati al loro stato di salute, li avrebbero anche minacciati di cacciarli da casa e di farli tornare nel paese d'origine. La prima a ribellarsi fu anche la prima ad essere ospitata in una “casa famiglia”. Come poi anche la sorella e il fratello. L’indagine è stata coordinata dal pm Silvia Facciotti. Pm in aula Maria Rita Signorato e Francesca Ferro. In primo grado, a difendere la coppia sono stati gli avvocati Manuela Linares e Sergio Giacalone, mentre a rappresentare i tre figli adottivi, costituitisi parte civile, sono stati gli avvocati Salvatore e Laura Errera e Marco Perrone. Durante il processo, l’ex padre adottivo ha ammesso di aver usato la cinghia per picchiare i figli adottivi. “Solo una volta” ha detto in aula. Per l’accusa e le parti civili, però, sarebbe accaduto più volte. Dal processo è, infatti, emerso che la cinghiata non era stata una, ma che più volte la più grande si era presentata a scuola con evidenti segni di cinghiate sulle spalle e questi fatti sono stati ricordati dalle compagne di classe che ricordavano quei segni. Per questo motivo la ragazza scappava da casa. La figlia più grande è riuscita a completare la scuola solo per il supporto della comunità dove è stata collocata. Dopo l'ennesimo atto di violenza che ha portato la sorella minore in ospedale, la stessa ha sporto denuncia raccontando ciò che avevano subito. Pare, comunque, che la più severa fosse la madre. In aula, un’assistente sociale, una psicologa, un’amica di una delle ragazze e il padre di una sua compagna di scuola hanno confermato le ipotesi d’accusa. “E' stato difficile ricostruire ciò che avveniva a casa Angileri – dicono i legali di parte civile - Inoltre, i coniugi accusavano i figli di avere atteggiamenti oppositivi ingiustificati come se il loro malessere fosse il portato di esperienze vissute nel paese d'origine. In realtà, i ragazzi erano stati solo sfortunati perché avevano perso i genitori e lo sono stati ancora di più quando il sogno di una famiglia accogliente si era infranto contro la terribile realtà. E di sicuro, in questo caso, non hanno funzionato i controlli sul nucleo familiare da parte di chi avrebbe dovuto vigilare sull'adozione". Dopo la sentenza di primo grado, la figlia adottiva più grande ha dichiarato: "Sono contenta perché per anni ho subito in silenzio e nessuno mi credeva, perché pensavano che io avevo un brutto carattere ed ero una bambina difficile. In realtà, l'unica cosa che volevo era una famiglia e una casa, cosa che mi è stata negata, oggi tutto quello che ho subito è scritto in una sentenza, io e mia sorella ringraziamo i giudici e i nostri avvocati che ci hanno creduto e supportato in tutto questo percorso". La vicenda, nel 2014, ha già avuto uno sviluppo giudiziario in sede civile. Cinque anni fa, infatti, il Tribunale di Marsala ha condannato i genitori adottivi al mantenimento dei due maggiorenni, ai quali devono versare 300 euro al mese ciascuno. Più che assegno di mantenimento, si può definire un contributo. E proprio a seguito di quanto emerso in sede civile, fu avviato anche il procedimento penale.