di Marco Marino
Come lance in una battaglia, gli sguardi sopravvivono all’atto del vedere. Lo sa bene Marco Carrera, protagonista del nuovo romanzo di Sandro Veronesi, «Il colibrì» (La Nave di Teseo, 2019). È una consapevolezza che certo non dipende dalla targa affissa sulla porta del suo studio, «specialista in oculistica e oftalmologia». Se il figlio di Probo e Letizia, fratello di Irene e Giacomo, padre di Adele e nonno di Miraijin, lo sa, lo deve a un’intera vita passata a trattenere immutabili e fissi dentro di sé gli sguardi di chi ha amato. Dopo che il destino li ha sottratti alla sua vista, è l’unico rimedio che conosce per sopravvivere a questo suo dolore senza nome.
Marco Carrera, novello Giobbe, novello Atlante, è l'uomo che è stato scelto per preparare il campo, per offrire al mondo uno sguardo sul domani. Lo sguardo di una bambina, morettina, dai lineamenti giapponesi, con i capelli ricci e gli occhi azzurri. Miraijin, la sua nipotina, «l'uomo del domani».
Ne parliamo con Sandro Veronesi.
Un matrimonio infelice, la morte di una figlia. Marco Carrera sembra costretto a ripetere tutti i dolori che hanno scontato i suoi genitori. Una sorta di ereditarietà della colpa?
L’eredità che i genitori lasciano ai propri figli non consiste soltanto della somma dei beni di casa. C’è anche un’eredità di altro tipo, immateriale, con la quale bisogna fare i conti. Non trovo sia una ripetizione della colpa, ma del modello di vita: tu provi a evitare il modello della tua famiglia di provenienza, pensi che da padre la tua vita avrà una forma del tutto nuova, poi in realtà inconsciamente vai a cercare o ti vai a procurare una serie di problemi da cui sei già passato da figlio. È una quota ineliminabile.
Davvero non c’è via di fuga?
Tutto nuovo non si può fare. E cercare di rimettere i piedi nelle stesse orme che si son lasciate, o che i genitori han lasciato dietro di sé, è una tentazione irresistibile. Si deve fare troppa fatica per scansare il destino che si è già avuto.
Marco viene descritto come un personaggio eroico. Ma in cosa si rivela questo suo eroismo?
Nel romanzo lo chiamo eroismo perché in una lettera Marco Carrera viene accusato da Luisa di avere una visione eroica della vita, di doversi sempre sentire un eroe che combatte. Ho riportato l’idea che Marco Carrera ha di sé, almeno secondo chi gli sta vicino e lo ama. Capita che persone normali abbiano di sé stesse una visione che risponde a dei precisi cliché: c’è chi si identifica nella figura dell’eroe, chi nella figura della vittima. E vanno avanti con questo immaginario tarato su quella figura lì.
Cosa ne fa un eroe piuttosto che una vittima?
Non porre condizioni alla realtà, questo penso sia il vero eroismo. La realtà non ti ascolta, non è una figura senziente. Bisogna accettare quello che ti porta, andare avanti per la strada prevista senza però cambiare personalità. Se sei qualcosa, devi restare quella cosa lì. Se le cose si mettono male, non devi solo resistere, che è una cosa che fanno tutti, ma devi farlo mantenendo la barra dritta. Perché se ti allontani da quello che sei sempre stato, magari ci riesci a resistere, che è una cosa importante, ma non puoi essere definito un eroe. Puoi essere definito una vittima, ma non un eroe. Marco Carrera avrebbe potuto avere l’immaginario della vittima, vivere come una vittima. Chi più di lui? Ma lui è “il colibrì” e per tutta la vita ha impiegato un incredibile numero di energie per rimanere saldo, fermo sulla propria identità, su ciò che era da ragazzo.
Da ragazzo comincia la corrispondenza con l’amore della sua vita, Luisa. Una relazione lunga più di trent’anni quasi esclusivamente epistolare. Semplice desiderio di anacronismo?
La corrispondenza nella relazione tra Marco Carrera e la sua Luisa comincia negli anni Ottanta, quando non c’era altro modo per comunicare i propri sentimenti a distanza. Pure quando arrivano le email, Whatsapp e tutto il resto, rimangono fedeli ai loro scambi epistolari. Hanno il piacere di andare a imbucare la lettera, mettere il francobollo, aspettare il postino. Come le dicevo, Marco è sempre il colibrì e mantiene il più possibile ferma la barra su questa modalità bizzarra, perché impedisce a entrambi di vivere veramente il loro rapporto, di conseguenza di cambiare vita. Sono bravissimi a scambiarsi amore da lontano, ma appena provano ad avvicinarsi non ci riescono più.
Il suo romanzo si compone di molte altre corrispondenze. Tutte accomunate dal loro carattere lacunoso, frammentario. Perché?
Nel romanzo la frammentazione è un elemento fondamentale. Non volevo raccontare una storia dritto per dritto, cronologicamente; anzi ho cercato di distruggere, di ribellarmi alla dittatura della cronologia, del tempo che scorre. Mentre scrivevo, mi sono fatto guidare dall’idea che i documenti che pubblicavo - lettere, email, messaggi whatsapp - erano i frammenti che ero riuscito a trovare. Facciamo conto che tutti i personaggi del romanzo fossero disordinati come lo sono io; se lei viene e guarda nei miei cassetti, non trova tutte le lettere che ho ricevuto e che ho mandato. Le ho perse, ho fatto tanti traslochi, le ho messe da una parte per poi ordinarle e mi sono dimenticato dove le ho messe e poi ho buttato via tutto. Quindi se uno dovesse farsi un’idea della mia vita attraverso i documenti che trova nel mio archivio, si troverebbe di fronte a qualcosa di simile al romanzo che ha davanti: esce fuori una lettera dell’aprile 1984 e poi un’altra lettera della stessa persona del novembre del 1987. Quel che succede nel mezzo magari è stato già commentato con altre lettere, ma quelle non ci sono più.
Il nostro eroe ha una missione: crescere sua nipote Miraijin perché da grande possa salvare il mondo. Lontani dai cori apocalittici, esistono ancora romanzi come «Il colibrì», come «La mia ombra è tua» di Edoardo Nesi, che credono nella possibilità di salvare il mondo.
Condivido con Edoardo Nesi un’idea salvifica della letteratura. Finché c’è la letteratura, finché possiamo comprare e leggere libri come “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry, la possibilità di salvezza del mondo è automatica. Non che la letteratura da sola possa salvare il mondo, ma è garanzia di redimibilità. Su questo pianeta la stragrande maggioranza della gente, ricordiamocelo, non legge. Siamo sette miliardi? Sei miliardi e mezzo non leggono. Non leggono libri di finzione, romanzi. Bene, quell’altro mezzo miliardo ha il compito di salvarlo, questo mondo. Perché sicuramente non verrà salvato da chi non sa cos’è la letteratura. Loro sono quelli da salvare. Allora a noi piace, a me, a Edoardo, ad altri, saperci parte - una parte secondaria, senza alcuna pretesa di stare in prima fila - di una tradizione che contribuisce a salvare il mondo. Con libri belli, brutti o medi. Quello che conta è tenere in linea col passato la quantità di pagine, e quindi di tempo e di energie che si spendono nella scrittura e nella lettura. Funziona come le difese immunitarie: non è che se hai le difese immunitarie sei salvo, ma se non le hai sei perduto.
Nella nostra conversazione è ritornata spesso la parola “destino”. Che certo è uno dei temi centrali del suo romanzo. Come ultima domanda, vorrei chiederle se lei si ritiene un po' fatalista.
Personalmente no. Nel vivere la vita affronto le cose una dopo l’altra. Il destino lo considero potentissimo retrospettivamente, guardando gli eventi con l’occhio del narratore. Se, come Marco Carrera, vai avanti e resisti alle torture che ti sono state inflitte e alla fine della tua vita ti succede qualcosa di importante, che dà senso a tutto quello che hai scontato in passato, uno può dirti: hai visto?, tutto quel dolore era legato al compito finalmente gratificante che ti attendeva in vecchiaia. Ma questo è un discorso letterario, uno se la racconta così. Ecco perché il destino per me resta soltanto un grandissimo personaggio letterario.