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23/11/2019 08:01:00

Sciascia 2019. Matteo Collura: "Socialista senza partito, cristiano senza chiesa"

 di Marco Marino

«Sono pessimista. Si dice che Moravia abbia una volta detto: “Sono ebreo, sono zoppo e sono scrittore: perché non dovrei essere pessimista?”. Io posso dire: sono siciliano, vivo in Sicilia e sono uno scrittore; potrei non essere pessimista?». Lo diceva di sé Leonardo Sciascia in «Conversazione in una stanza chiusa», con la sua solita erosiva ironia, lasciandoci una sintesi estrema della sua persona: essere siciliano; vivere in Sicilia; essere scrittore; essere di conseguenza pessimista.

Attorno a queste quattro circostanze, o a queste quattro occasioni, comincia a profilarsi l’identikit sciasciano tracciato da Matteo Collura in “Il maestro di Regalpetra”, di cui quest’anno è uscita una nuova edizione per La Nave di Teseo. Che non è semplicemente una puntuale biografia dello scrittore racalmutese; è piuttosto l’unica mappa che permette a noi lettori di fare ricognizione, di orientarci all’interno della vita e del pensiero di un intellettuale che ha fatto della sua irregolarità il principale paradigma da perseguire.

La fanfara del trentennale volge al termine. Come ne esce fuori Sciascia? 

La figura di Leonardo Sciascia sconta un grande problema: contrariamente a quanto succede per molti altri scrittori o per molte altre scrittrici, Sciascia viene davvero ricordato. È continuamente tirato in ballo nei talk show televisivi, sui giornali. Questa circostanza sembra che dia a chiunque la libertà di utilizzarlo come vuole, di pensarlo come una coperta che è possibile tirare da tutte le parti. D'altronde in «Candido» lui stesso l’aveva previsto: «La morte è terribile non per il non esserci più ma, al contrario, per l’esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri di coloro che restavano».

Come dovrebbe essere ricordato, secondo lei?

Come l’intellettuale più importante del secondo Novecento italiano, insieme a Pier Paolo Pasolini. E voglio sottolineare “l’intellettuale”, non “lo scrittore”.

Sempre più spesso, invece, di Sciascia viene restituita soltanto l’immagine del mafiologo. Come se la sua produzione si fosse fermata a «Il giorno della civetta» ...

Per risponderle, è bene prima puntualizzare alcune cose. «Il giorno della civetta» è un libro scritto nel 1960, pubblicato nel 1961, due anni prima dell’insediamento della prima Commissione Antimafia; è un’opera che offriva tutti gli strumenti per riconoscere e combattere la mafia, seguendo la bussola economica. Negli anni, però, è vero che è stato il libro che alcuni hanno usato per marginalizzare l’opera di Sciascia e confinarla nella dimensione del mafiologo e nient’altro.

E sicuramente lui era molto altro.

Lui è l’uomo che ha scritto «L’affaire Moro»: un’incredibile testimonianza dei principi di giustizia. Se ne dovessimo trovare un precedente, bisognerebbe volgere lo sguardo a più di centocinquant’anni prima, alla «Storia della colonna infame» di Alessandro Manzoni.

Testo a lui molto caro, tra l’altro. Uscì per Sellerio un’edizione con una sua nota.

Sì, sono testi legati dagli stessi principi e talora da una simile struttura. Alla fine della commissione parlamentare sul delitto Moro, Sciascia firmò la sua relazione di minoranza e volle che fosse aggiunta in appendice a una ristampa dell’«Affaire Moro». Un po’ come Manzoni che aveva voluto mettere la «Storia della colonna infame» in appendice all’edizione quarantana dei «Promessi Sposi».

Ci potrebbe restituire le sue impressioni sull’«Affaire Moro»?

Un libro cristiano, e pochi ce ne furono così nel Novecento. Sciascia detestava la Democrazia Cristiana e detestava il suo segretario che era Aldo Moro, l’uomo del dire per non dire, il politico delle “convergenze parallele”. Ma quando lo vede prigioniero delle Brigate Rosse, ormai spoglio di ogni potere, ecco Sciascia cristianamente gli va incontro e gli dà la parola. I compagni di partito di Moro dicono che le lettere che manda, lettere piene di verità, di ravvedimento, sono scritte con la pistola dei terroristi rossi puntata alla tempia. Invece era soltanto Moro che provava a esprimere la propria disperata verità. Per queste ragioni uso l’aggettivo “cristiano”.

Vorrei soffermarmi proprio sull’aggettivo “cristiano”. Si dice che Sciascia nell’ultimo periodo della sua vita pensasse a una “conversione”. È vero?

È un aspetto che nel «Maestro di Regalpetra» chiarisco subito. Sciascia non aveva da convertirsi in niente. Diceva di essere religioso, religiosissimo, ma la sua religione non era imbrigliata. Non era un cattolico, per dirla chiaramente. Sosteneva questo: nel momento in cui rispetto il prossimo mio come me stesso e dedico la mia vita alla ricerca della verità, io agisco da cristiano. Come Benedetto Croce sicuramente pensava che non possiamo non dirci cristiani; ma, ripeto, essere cristiani non significa essere cattolici. Son due cose molto diverse. Altrimenti non avrebbe scritto «Todo Modo» o «L'affaire Moro». È l’uso che la Chiesa fa della politica che Sciascia ripudia.

E che conferma il suo essere “eretico”?

Come Ignazio Silone, era «socialista senza partito, cristiano senza chiesa». Non se la possono permettere molti tale definizione. Del resto, uno dei suoi ultimi libri, «A futura memoria», si apre con un’epigrafe da Georges Bernanos che recita: «Preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli». Quanti scrittori italiani avrebbero il coraggio di pronunciare una frase del genere?

Un’ultima domanda. Quanto è stato difficile scrivere la biografia di un personalità così complessa?

Di Leonardo Sciascia sono stato amico per più di vent’anni, condizione che mi vedeva quindi come testimone di molte circostanze della sua vita: in Sicilia passavamo le giornate alla Noce, andavamo assieme a Parigi, ci vedevamo a Milano. Confesso, però, che è dovuto trascorrere del tempo perché mi convincessi a scrivere di lui. Nonostante le pressioni di molti editori, sono passati più di sei anni dalla sua morte. Dovevo trovare il distacco necessario. A scrivere «Il maestro di Regalpetra» mi ha davvero molto aiutato il suo ricordo, lungo tutta la scrittura è stato come un forte incoraggiamento.