[Per Tp24 oggi lo scrittore Gianfranco Perriera indaga il tema del potere all’interno dell’opera di Leonardo Sciascia. Pubblicheremo le sue riflessioni in due puntate, oggi e domani. Perriera è tra gli autori del nuovo monografico della rivista «Segno», dedicato a Sciascia e il cristianesimo, che verrà presentato questo pomeriggio a Palermo, alle 17, alla Chiesa di Santa Maria dei Canceddi]
di Gianfranco Perriera
E’ una macchina davvero curiosa, dice l’ufficiale all’esploratore nel racconto «Nella colonia penale» di Kafka. Comincia così a descrivere una macchina per la tortura a cui ogni colpevole, senza processo, viene consegnato per la condanna. Efficientissima e spietata, trionfo della tecnica e insieme stupidissima, la macchina finirà per maciullare lo stesso ufficiale. Il suo funzionamento non fa una piega – almeno in teoria. Essa affattura e quindi deresponsabilizza, mentre inchioda – letteralmente e metaforicamente insieme – ad una colpa di cui si è persa la ragione. Ribadisce con imponenza il potere di una Legge rigidissima e inspiegabile che non ha alcuna pietà e che trova persino fanatici difensori che per lei si immolano. Nell’universo demoniaco di Kafka il marchingegno che ne regge la struttura si rivela infondato e feroce. Contro tale struttura sbatte e si consuma chi, come aveva suggerito la Arendt, si impegna per difendere i bisogni e i diritti più basilari degli esseri umani. Nell’universo ipertecnologico che si sta instaurando, “la tecnicizzazione – scriveva Adorno – rende le mosse brutali e precise, anche degli uomini. Elimina dai gesti ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo. Li sottopone alle esigenze spietate, vorrei dire astoriche delle cose” (Minima Moralia, 19). Gli umani, resi col tempo sempre più impacciati, inaffidabili e superficiali, precipitano in una situazione grottesca, dove comico e tragico si mescolano, mentre un minacciosissimo potere – ci conferma Kafka – incombe continuamente su di loro: può esiliarli dal consesso umano, trasformarli in scarafaggi, ucciderli come se stesse esaudendo una loro richiesta.
A distanza di più di sessanta anni, nelle pagine sciasciane il potere torna ad evidenziare la sua losca maschera. Se ne raffredda la temperatura incongrua del meccanismo, tenuta a freno da una scelta di medietà linguistica e di rigorosa articolazione sintattica, se ne riduce la tentazione metafisica, ma anche nei suoi romanzi la tenace trama del potere si abbatte spietata sugli umani.
Come sanno i filosofi che si occupano di etica, due sono sostanzialmente i punti fermi su cui si possono giudicare le massime e gli orientamenti di un’etica: la vita e la libertà. Ogni volta che si erode qualcosa di questi due “valori orientativi”, ogni volta che la vita isterilisce sotto minaccia o sotto il bisogno, ogni volta che l’autonomia viene ridotta o addirittura interdetta, allora il potere sta gettando ogni maschera e nell’imporre i propri interessi, non soltanto la felicità ma anche, e soprattutto, la dignità degli umani sta sacrificando. Nelle pagine di Sciascia è proprio nel togliere fiato al pensiero autonomo e alla gioia di vivere che il potere mostra, pian piano, pagina dopo pagina, la sua forza e la sua motivazione. Potere di dare la morte, spessissimo di minacciarla; potere di imbrogliare le carte, di seppellire la verità sotto un mucchio di castronerie; potere di imporre i ragionamenti più idioti, di esiliare o soffocare le intelligenze: queste le modalità dell’azione del potere descritte da Sciascia. Come sparpaglia i ragionamenti in affermazioni prive di uno straccio di logica e in pettegolezzi ridicoli, come li sommerge sotto bugie banali e sempre più improbabili, così arriva il momento in cui si abbatte anche sui corpi, li disseziona con violenza inaudita, esibendosi nella più disinvolta e ostinata tortura, non a caso uno dei principali oggetti di critica nelle pagine dello scrittore.
Se rinuncia a qualcosa, dunque, dal punto di vista che potremmo definire – per comodità - mitologico-metafisico rispetto a quella kafkiana, la macchina del potere descritta da Sciascia non è però meno spietata e invasiva. La colpa che attanaglia gli umani non sta, certo, in qualche misterioso sbandamento nella notte dei tempi di cui si è persa memoria, ma sta invece nella loro cecità, nel loro adagiarsi quasi comodamente nella rinuncia all’autonomia. Di opportunismo e menzogna sono intrecciate le fitte ragnatele del potere. Come aveva indicato Manzoni, autore da Sciascia spesso richiamato, il linguaggio del potere nasconde e depista, ingarbuglia e falsifica, rende difficoltosa la lettura delle sue decisioni sfruttando il non sapere, e invitando alla diffusione dei luoghi comuni (tutti i delitti di mafia, per esempio, si vogliono far passare per delitti “di corna”). Arriva però, prima o poi, il momento in cui il potere esibisce il suo segreto: essere, cioè, un potere di morte da esercitare ogni qualvolta qualcuno si spinga troppo in là nel volerlo mettere in dubbio. Per questo il potere, su cui Sciascia esercita la sua acuta critica, calpesta il più generoso lascito di ogni umanesimo e in particolare dell’illuminismo, perché sopprime ogni rispetto per l’uomo, per la persona umana: nella sua estrema concretezza e singolarità – perché ogni essere umano è irripetibile e insostituibile, perché ogni essere umano eccepisce dalla specie – come nella sua universalità – perché il concetto di essere umano definisce un animale razionale, dotato di parola, in grado di provare sentimenti, passioni e desideri, capace di partecipare alla sorte degli altri, in diritto di scegliersi autonomamente una larga fetta del proprio destino.
Il mondo descritto da Sciascia è un mondo grigio. Anche i potenti appaiono poco felici. I pezzi da novanta che si riuniscono nello pseudo eremo di Zafer, in «Todo Modo», alcuni per altro facendosi precedere dalle amanti, sono costretti a sottomettersi a un rigido protocollo, ad un carosello penitenziale, agli ordini di un mefistofelico burattinaio, Don Gaetano, che non perde occasione per schernirli e svilirli. Chi esercita il potere, pare dire Sciascia, mentre si industria, instancabile e sempre più ipocrita, a tessere trame e a tramare inganni, non deve neanche più credere davvero a quanto afferma: cura gli interessi della propria forza, nient’altro. Perciò tende farsi sempre più cinico, spietato e sfacciato. Non rispetta l’umanità dell’uomo, la sevizia nel corpo e nello spirito, e si copre di disinvolta vergogna, cercando di soddisfare i suoi vili interessi o il proprio fanatismo di parte. Come fanno i nove teologi che assistono, tenaci, allo strazio di Fara Diego La Matina, in «Morte dell’inquisitore»: pieni di dottrina teologica e morale, si arrovellano intorno al condannato, ma non disdegnano di ristorarsi alla tavola generosamente apparecchiata per loro dall’alcaide. E che “restano nella storia del disonore umano”.
Di fronte a tali schieramenti compatti, ottusi e spesso infidi – quante volte, infatti, com’è costume delle forme autoritarie, il potere non è costretto a sacrificare anche i suoi sodali – si pone l’individuo isolato, o comunque con ben pochi amici. Colui che come Fra Diego: “afferma la dignità e l’onore dell’uomo, la forza del pensiero, la tenacia della volontà, la vittoria della libertà” (Morte dell’inquisitore, p. 73, 1992).
Questi uomini soli non rinunciano a capire, ad interpretare l’apparentemente irredimibile tran tran dell’esistenza, non ci stanno a lasciarsi imprigionare dalla ragnatela della ripetizione dell’uguale (di cui la Sicilia, forse un po’ troppo spesso nelle sue pagine, si fa metafora). Questi uomini soli si dispongono in una galleria che va dai più irreprensibili – come il capitano Bellodi ne «Il giorno della civetta» o Francesco Paolo Di Blasi ne «Il Consiglio d’Egitto» – ai più ambigui e discutibili – come Fra Diego La Matina in «Morte dell’inquisitore» o il pittore in «Todo Modo» – ma tutti ricevono dalla penna di Sciascia il più intenso riconoscimento, di tutti, cioè, si scrive, con qualche variazione, la formula: “era un uomo, che tenne alta la dignità dell’uomo” (Ibid., p. 102).
La figura più moderna di questa galleria, quella con cui la scrittura di Sciascia si fa più presaga della deriva della società contemporanea, è forse quella di Aldo Moro. Proprio la scelta di un non eroe, grigio e vagamente ambiguo, parte dello stesso sistema da cui si trova travolto, modernissimo nell’essere annoiato e stanco”, in una condizione di effettiva e concretissima prigionia, con addosso il marchio della morte per “abbandono”, fa sì che «L’affaire Moro» – opera redatta quasi in simultanea alla conclusione di uno dei più brucianti e svergognati misteri d’Italia - risulti una delle opere più intense dello scrittore e – a quanto vedo – da più parti indicata, di questi tempi, come una delle migliori.
La letteratura, sosteneva lo scrittore, è la più assoluta forma che la verità possa assumere. Non soltanto – possiamo arguirne – in onore alla formula aristotelica, che vuole il racconto di finzione ben più universale della particolarità effettuale della storia. Non semplicemente perché nel descrivere l’accadimento di un singolare individuo, la letteratura respinge l’imposizione di una regola astratta o peggio statistica alle vicende degli umani e, presentandoci “volti irripetibili”, rende più intensa la partecipazione dei lettori. Ma anche, e soprattutto, perché in un mondo che nasconde le sfuggenti tracce della verità sotto maschere sempre più incongrue e sfacciate, la letteratura, in particolare il romanzo saggio, tanto caro a Sciascia, scritto, a punta di penna, tra le intercapedini dei documenti, assume valenze profondamente ermeneutiche e fa dello scrittore quello che il commissario è nei gialli: l’irriducibile collezionista d’indizi che chiamino la colpa a rendere conto di sé. Inoltre il romanzo – saggio (o in questo caso sarebbe meglio dire il saggio-romanzo con venature di pamphlet, dal momento che il ragionamento sulla politica d’Italia ha in quest’opera una evidente preponderanza e che l’analisi corrosiva dell’autore trova in queste pagine una vena assai brillante) può permettersi di sbugiardare “i documenti ufficiali”, che spesso non sono che le versioni dei vincitori, proponendo l’interpretazione ben più veritiera dell’accaduto senza dover mostrare obbligatoriamente la prova dei fatti.
La letteratura – che nel caso di Sciascia si vuole fedele alla verità dei fatti e sostenuta da un afflato argomentativo – sbugiarda le menzogne e la corruzione del potere e insieme discopre e lascia in eredità all’immedesimazione del lettore le migliori qualità dell’umano, di chi, cioè, alle mortifere bugie del potere, ha saputo opporre resistenza. Senza apologetica e, spesso, senza lieto fine.
FINE PRIMA PARTE