Prosegue oggi l’articolo di Gianfranco Perriera per Tp24 che riflette sul tema del potere all’interno dell’opera sciasciana. In quest’ultima parte lo scandaglio di Perriera si concentra sul discusso Affaire Moro
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di Gianfranco Perriera
«L’affaire Moro» viene edito nell’ottobre del 1978, ad appena quattro mesi dall’assassinio del presidente del Consiglio nazionale della DC. Nell’immaginario di tutte le donne e gli uomini di quell’epoca resta impressa l’immagine di quel corpo, in posizione quasi fetale, abbandonato nel bagagliaio di una macchina, fatto trovare, come acutamente nota Sciascia, in una linea di confine, tra le case della DC e del PCI: le forze politiche che Moro stava cercando di traghettare verso un qualche accordo di governo. Colui che voleva essere un paziente traghettatore viene ucciso dopo una lunga prigionia e il suo corpo viene lasciato, come un monito, all’incrocio di quelle vie che avrebbe voluto unire e che invece, entrambe, lo hanno abbandonato alla morte.
E’ un libro di lucida disamina, quello di Sciascia, scritto a caldo. Senza la pazienza dello storico, che deve lasciare un po’ raffreddare i fatti, ma con profonda capacità di raziocinio. Una lucidità offesa, si direbbe, che esamina quei nemmeno due mesi che corrono dal rapimento alla uccisione. “La storia giustifica qualsiasi cosa. – aveva scritto Valery – contiene tutto e di tutto fornisce esempi” (Sguardi sul mondo attuale, p. 36, 1994). Alla storia il potere impone un intricato merletto di bugie, chiosa Sciascia, così improbabili eppure svergognatamente imposte come verità. O almeno adatte a creare una nebbia che confonde.
In questo testo sono due - si sono duplicati, dunque, sdoppiati - i poteri che misurano, ai danni dell’individuo, le loro forze: uno spietato, quello delle Brigate Rosse, accecato da ideologia e fanatismo, l’altro, quello della Democrazia Cristiana, ambiguo e mellifluo, esercitato da anni a gestire il potere, a travestirlo di buone intenzioni e a collegarlo alle peggiori. Due poteri diversissimi, almeno in superficie, quanto a metodi e linguaggi (duro, senza fronzoli, forgiato nel più becero materialismo storico quello delle BR; nebbioso, contorto, ipocrita, esperto nel non dire pur parlando, quello della DC). Eppure entrambi, negli effetti, brutali e mortiferi. Entrambi omicidi. In nome di una rivoluzione futura il primo, in nome – sarebbe meglio dire sotto le mentite spoglie - di una ragion di stato il secondo, calpestano entrambi la persona e la vita umana. E’ soprattutto sul secondo che gli strali di Sciascia si fanno più acuti. In fondo quello delle BR – tacciato insieme di stalinismo, di metodi simili a quelli della mafia, di imperizia e di scarsa visione storica – è ovviamente criticabile: quale rispetto e quale credibilità può suscitare un principio che in nome di un mondo futuro e di un’ideologia che propugnerebbe l’uguaglianza tra gli uomini, uccide spietatamente?
Il secondo invece, quello incarnato dalla DC, è un abilissimo manovratore d’intrighi, un superbo cavillatore. Antico, perciò, e insieme modernissimo. Seppur porta nel nome il riferimento alla religione cristiana – e dunque a una religione per cui la vita è sacra – non esita ad avallare un omicidio. E lo fa strombazzando una retorica d’alti contenuti, sventolando il vessillo di una democraticissima ragion di Stato: come salvare una vita umana quando già cinque, che componevano la scorta dell’onorevole, erano morte nel vano tentativo di proteggerla? Eppure il partito che l’idea di Stato improvvisamente resuscitava sul cadavere di un suo stesso rappresentante – suggerisce Sciascia – era lo stesso che “da più di un secolo conviveva con la mafia siciliana, la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trenta anni coltiva la corruzione e l’incompetenza, disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi” (L’Affaire Moro, p. 63, 1978). Uno stato così mefistofelico, infine, da combinare l’offerta di un martire con il contemporaneo svilimento dello stesso. Abilità davvero suprema del linguaggio del potere, dunque, che mentre eleva a “grande statista” la figura di Aldo Moro, lo dice, durante la prigionia e in seguito alle lettere da lui spedite, uomo “sotto un dominio pieno e incontrollato”e che lo ha già ucciso prima ancora di avviare una qualunque trattativa. Di fronte a queste due macchine della tortura mortifera - l’una, sostanzialmente, più imbecille, dal momento che “di ciò che si proponeva nulla venne a frutto”, l’altra assai più subdola, dal momento che con quella morte si arrestava un processo che in quel momento non si voleva – rimane fragilissimo e inascoltato un uomo “solo e in ritardo”. Uno straordinario non-eroe, modernissimo nel suo apparire costantemente annoiato, con una maschera di perenne stanchezza sul volto, profondamente umano nel tentare di affidare alla parola, misurata e sottile, il tentativo di salvarsi dalla brutalità dell’epoca. Il più incolpevole tra i possibili colpevoli di uno Stato corrotto e colluso con i peggiori, eppure così addentro al potere: Aldo Moro era stato un inesausto tessitore di trame, abilissimo nel linguaggio della dissimulazione. Moro, nella galleria sciasciana, non era certo un Di Blasi. Non conosceva la passione illuminata, non aveva impeti rivoluzionari. Non perseguiva una trasformazione etica che avrebbe svecchiato i tempi e reso autonomi gli spiriti. Centellinava le sue riforme con pazienza, sostanzialmente pareva accettare che il mondo fosse preda della ripetizione dell’uguale, ma qualche leggera screziatura avrebbe voluto introdurla. Con acutezza, Sciascia lo descrive come in preda ad atavica spossatezza. Conosceva “il segreto italiano e cattolico di disperdere il nuovo nel vecchio, di usare ogni nuovo strumento per servire regole antiche e, principalmente, di una conoscenza tutta in negativo, in negatività, della natura umana” (Ibid., p. 34). La sua quasi apatica virtù appare figlia da un lato dello spegnimento delle passioni che Tocqueville aveva individuato quale portato dello spirito della democrazia americana, e, dall’altro, della scafata abitudine a gestire il potere tra gli umani, quando con un certo nichilismo, temperato dalla sopportazione cattolica, non ci si fa più troppe illusioni sulla loro qualità. Ecco perché, su quella maschera sfinita, di tanto in tanto balugina una piega ironica, uno sbaffo di disprezzo. Artefice, dunque, di minuziose e meditatissime imprese, il Moro tratteggiato da Sciascia è un degno interprete della formula di lampedusiana memoria, di quel cambiare le cose per non cambiar in realtà nulla. Eppure questo triste e certosino ragioniere del potere rimane prigioniero del suo stesso agire: rimane schiacciato dal tentativo di giostrare con il potere da una posizione di comando. Vero eroe da tragedia, allora, che quanto più fa, tanto più si consegna alla catastrofe. Ma di una tragedia di cui, per richiamarsi a Pirandello che all’interno de «L’affaire» è citato, a cui hanno strappato il cielo di carta. Una tragedia di tempi troppo incongrui e sfacciati, dove troppi personaggi hanno il fiato corto e il contegno da operetta. Una tragedia dove il protagonista muore abbandonato da tutti, quasi fosse un peso ingombrante e I suoi appelli cadono nel vuoto, soffocati da fandonie retoriche e da falsi comunicati. Le sue speranze e quelle che Sciascia interpreta come indicazioni per le ricerche disseminate nelle sue lettere, sono frustrate da indagini scapestrate e da una diffusa volontà di abbandonarlo al suo destino, di celebrargli, al più presto, il funerale. Di Blasi e persino Fra Diego La Matina restano protagonisti di un dramma. La storia contemporanea – pare avvertirci Sciascia - si accartoccia, invece, tra menzogne spudorate e sfacciatamente improbabili. Questa storia – avverte ancora Sciascia con amareggiata ironia – è di per sé più letteraria che reale. Perché è verosimile come lo è una trama di finzione, e una tale impressione è causata “da quella specie di fuga dei fatti, da quell’astrarsi dei fatti […] in una dimensione di consequenzialità immaginativa o fantastica indefettibile e da cui ridonda una costante, tenace ambiguità”. (Ibid., p.28). In questa storia, dove i carcerieri si muovevano spesso con eccessivi rischi sempre all’interno di Roma e la polizia non ne imbroccava una, dove i rapitori sembravano far fatica a non farsi investire dai sensi di colpa e dove gli amici di partito sembravano voler accelerare l’esecuzione, le Br, sottolinea Sciascia, sono sfuggite al calcolo delle probabilità. “Il che è verosimile, ma non può essere vero o reale” (Ibid., p. 29).
Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità è inammissibile, scrive Sciascia. Ancora una volta il potere schiaccia un’esistenza concreta, la offre, per i suoi calcoli d’interesse, in sacrificio alla morte. Sul finire degli anni settanta, dopo tutti i diritti che l’individuo ha acquisito, chi governa torna a richiamarsi all’antico principio della ragion di stato e in nome di esso uccide. Secondo la lezione del più disinvolto postmoderno, in questa brutale storia, finzione e realtà si mescolano impudentemente e l’epoca che sta celebrando i più vistosi progressi della tecnica richiama in vita con la ragion di stato – senza ovviamente crederle – un principio di tempi da un bel pezzo passati. Un principio che impazzava in età barocca, quando il re era ancora assoluto, la teatralità e l’etichetta strutturavano la vita e la dissimulazione era una virtù da tener cara.
Solo e in ritardo se ne muore, così, il meno colpevole. E solo e attardato, spesso in Sciascia, si rivela il pensiero. Solo perché da pochi praticato e spesso impedito o reso affannato da quanti ingarbugliano le regole del gioco. In ritardo, non perché non sia capace di scrutare in profondità, di interpretare e persino svelare intrighi e oscenità di chi ordisce le trame del reale. In ritardo non perché non sia in grado di prevedere lo sviluppo di una situazione o perché sia privo di capacità profetica. Ma in ritardo perché sempre sopravanzato dalle macchinazioni di chi gestisce il potere. Questo – ci avverte Sciascia, con lucida intelligenza – è infatti sempre in agguato, acquattato in un angolo, con in mano il pugnale dell’assassino. Ma se il conoscere, l’apprendere, è legato al soffrire, come aveva detto Eschilo, in Sciascia esso resta l’indubitabile e inalienabile segno di un’umanità che non si piega al misfatto. “Soltanto le cose che si pagano sono vere – aveva scritto Sciascia in Todo modo – che si pagano a prezzo di intelligenza e di dolore” (Todo Modo, p. 33, 1995)
Nell’aforisma 40 dei «Minima Moralia», Adorno scriveva che “la generazione che sorge veglia gelosamente come su pochi altri suoi beni, sulla propria mancanza d io, come su un possesso comune e duraturo. Il regno della reificazione e della regolamentazione viene esteso così fino al suo radicale opposto, a ciò che passa per abnorme e caotico” (Minima Moralia, p. 67, 1994). Quasi venticinque anni dopo, nella prigionia prima e nell’uccisione dopo in nome di una retrograda e ipocrita ragion di stato di un “non eroe” che delle maglie del potere aveva cercato di farsi paziente tessitore, Sciascia sembra prefigurare la deriva della nostra epoca, dove ogni autonomia dell’io rischia e insieme brama di essere soffocata dalla brutalità degli eventi e dal modo pubblico di narrarli. Con l’uccisione di Moro – così come viene racconta e analizzata da Sciascia – si apre la stagione della finzione disincantata ma non per questo meno feroce. E’ una macchina curiosa, aveva detto l’ufficiale del racconto «Nella colonia penale»: la scrittura di Kafka si insinuava nei buchi della Legge, di qualsiasi Legge a disvelarne i lati demoniaci e i pericoli della sua infondatezza. E’ una macchina curiosissima, sembra suggerirci Sciascia a più di sessant'anni di distanza: una macchina del potere altrettanto spietata, ma che non crede più a nulla se non nella possibilità di riprodurre se stessa. Se nessun uomo politico di successo potrà mai più apparire triste e stanco, le sue trame, le sue affermazioni, la sua retorica sempre più sfideranno il calcolo delle probabilità. La buona letteratura è la più assoluta forma di verità, allora, ci lascia in eredità Sciascia, proprio quando ci avverte del fatto che la realtà è ben misera quando rischia di trasformarsi in cattiva e sempliciona letteratura di consumo.