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22/12/2019 06:00:00

Breve storia di un'infamia (o il maestro e Caterina)

 di Marcello Benfante

“In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche il proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”

                                         

(Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, cap., XXXI)

 

Pubblicato da Bompiani nel 1986, dopo essere apparso a puntate sul “Corriere della Sera”, “La strega e il capitano” di Leonardo Sciascia, che riappare nel trentennale della morte dell’autore in una nuova edizione per Adelphi, è uno dei testi più sottovalutati da parte della critica.

Stranamente (oltre che ingiustamente e sommariamente) sottovalutato, perfino tra alcuni dei lettori più competenti e fedeli, nonostante la sua centralità tematica nell’opera sciasciana.

E il tema, centrale e potente, di questo breve saggio incentrato sulla figura di Caterinetta Medici (cui si accenna nella “Storia di Milano” di Pietro Verri e nel capitolo XXXI dei Promessi Sposi) è quello manzoniano per eccellenza dell’inquisizione e della persecuzione degli untori e dei proscritti, fuori da ogni diritto naturale e dalla ragione, dal buon senso stesso e dalla più elementare pietas.

Per cui, con calzante e malinconica attinenza, potremmo dire riguardo a “La strega e il capitano” quel che Sciascia diceva, nel saggio “Goethe  e Manzoni”, a proposito del “Sistema di Don Abbondio” di Angelandrea Zottoli: “Ma come la nostra storia civile, anche la nostra storia letteraria è fatta di dimenticanze, omissioni e disguidi”.

Complicati equivoci e confuse amnesie, di storia letteraria e civile, che riguardano tanto il cattolicesimo irregolare del Manzoni che l’illuminismo eterodosso di Sciascia.

Per cui bisognerebbe fare almeno un passo indietro, e tornare a quell’altro importantissimo saggio di Sciascia, anch’esso contenuto in “Cruciverba”, che s’intitola lapidariamente “Storia della colonna infame”. E in particolare a quel passo fondamentale in cui Sciascia parla della Milano secentesca, oscurantista e intollerante, su cui si era abbattuto “nel secolo successivo lo sdegno di Pietro Verri, illuminista; e ancora un secolo dopo, nel XIX, la non meno sdegnata ma più dolorosa e inquieta e acuta meditazione di Alessandro Manzoni, cattolico”.

Cattolico non meno che illuminista, verrebbe da dire, per scardinare la meccanica contrapposizione. Di un cattolicesimo refrattario al cattolicesimo, di cui il cattolicesimo diffida, e di un moralismo “molto più prepotente delle sue credenze religiose”.

D’altronde anche Sciascia ha posto l’antitesi per smentirla poco dopo. “Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni, Manzoni alle responsabilità individuali”.

Per Manzoni come per Sciascia, i Tempi, la Storia, il Governo, la Ragion di Stato, non possono mai costituire un alibi scagionante, una giustificazione plausibile, per le scelte morali e intellettuali dei singoli, degli uomini che dovrebbero rispondere in primo luogo alla propria coscienza.

E che un simile esame, almeno a lume di buon senso, fosse possibile anche allora, lo dimostrano le obiezioni ragionevoli al teorema delle unzioni che mossero, teologicamente e laicamente, il cardinale Federico Borromeo e lo storico Giuseppe Ripamonti: obiezioni che bastano “a dirci che i tempi non erano poi così oscuri e che un uomo intelligente ed onesto poteva e doveva, specialmente esercitando ufficio di giudice, arrivare se non alla convinzione del secondo almeno a quella del primo”.

Né si tratta, dal punto di vista sciasciano, soltanto di questione di fede o di storia, ma di materia scottante in campo morale e di conseguenza politico, attuale e sempiterna, che riguarda ciascuno di noi al di là della distanza cronologica: “Poiché il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo essere davvero storicisti. Il passato che non c’è più – l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora. E il fascismo sempre”.

Così Sciascia, scrittore civile e morale, scrittore manzoniano, sulla “Colonna infame”, appendice dei “Promessi Sposi” da cui a suo avviso è opportuno ripartire come introduzione al romanzo, “alla quale mai ci stancheremo di rimandare il lettore”. Un po’ come quello che qui stiamo facendo anche noi, su scala ridotta, muovendo dal saggio sciasciano “La colonna infame” per illuminare la lettura de “La strega e il capitano”.

Una medesima preoccupazione presiede a entrambi gli scritti sciasciani: nella “Strega e il capitano”, la critica della “banalità del male”, ovvero la “banalità dell’atroce, della crudeltà, della sofferenza”; nella “Storia della colonna infame”, i “burocrati del Male”, cioè gli artefici di certe formulazioni giuridiche pedanti e sadiche, i rappresentanti di una aberrante grettezza morale e culturale, del bigottismo più farneticante.

In questa prospettiva, che rimanda implicitamente all’opera più nota di Hannah Arendt, si comprendono meglio alcune polemiche a margine di Sciascia (che talora sono sembrate divagatorie e stridenti a certi frettolosi commentatori) come quelle contro la “professionalità” e contro l’arroganza corporativa della medicina (dei “fisici” non dissimili dai metafisici) e del potere giudiziario, laddove assumono la forma di un abuso saccente e protervo  contro l’uomo indifeso.

In opposizione all’acribia (e l’acrisia) dei professionisti, Sciascia rivendica i diritti di un dilettantismo libero e felice che muove da Montaigne (“Non faccio nulla senza gioia”) e che consiste soprattutto nello scrivere, anche di cose “amare, dolorose, angoscianti”, in uno “stato di grazia”. Dilettantismo, si badi, tutt’altro che vano e vacuo, dal momento “che nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende”.

È nel senso pedagogico di una letteratura intesa come magistra vitae, come verità esistenziale, che va quindi considerato questo “sommesso omaggio ad Alessandro Manzoni, nell’anno in cui clamorosamente si celebra il secondo centenario della sua nascita”, come si legge nella chiusa del libretto.

Omaggio austero, indignato, ma a tratti anche giocondo, non privo di digressioni ironiche che mitigano (e temprano) la cupezza incandescente della materia, sulle stregonerie e gli esorcismi contemporanei, per esempio, ma dolente e accorato nella denuncia delle piaghe più terribili della nostra eterna storia.

Non quindi uno sguardo rivolto solo al passato, alla peste, al Manzoni, ai processi infami di un oscurantismo trascorso, bensì anche all’oggi, e più cupamente, in quanto il presente appare privo di attenuanti e anzi si carica ulteriormente di aggravanti per la sua incapacità di superare antichi errori, antichi orrori, nonostante un sedicente progresso. “Terrificante è sempre stata l’amministrazione della giustizia, e dovunque. Specialmente quando fedi, credenze, superstizioni, ragion di Stato o ragion di fazione la dominano o vi si insinuano”.

Sicché il calvario della “povera infelice sventurata” (come scrive il Manzoni) Caterina Medici, presunta strega costretta a confessare ipotetici sortilegi demoniaci ai danni del senatore milanese Melzi, molto ci rivela dei tempi andati e pure dei nostri, ossia di Sciascia e dei suoi successivi lettori, sui meccanismi di distorsione delle prove e della verità dei fatti, sull’uso del pentimento estorto e delle dichiarazioni di correità dei cosiddetti pentiti “per come si desiderava e come polizia e giudici invariabilmente desiderano”.

Per cui sarebbe riduttivo e in buona sostanza mistificante interpretare “La strega e il capitano” solo come un mero esercizio di ricerca e di stile, come inchiesta archivistica di microstoria sui documenti e sui linguaggi, e sulle ideologie che nella lingua s’annidano, si celano e rivelano. Si tratta invece di una cronaca, nel senso stretto della sua contemporaneità, che continuamente allude alla ragion di governo e di malgoverno dell’Italia (ma non solo) del secondo Novecento: il paese grottesco e tremendo dei terrori occulti e dei furori istituzionali, delle lascivie del Potere, così conformi al voyeurismo (acustico, per così dire) degli inquirenti secenteschi, laici ed ecclesiastici,  alla concupiscenza oscena del loro immaginario.

Scorre lungo tutto il testo una sottile vena erotica, terragna e corrusca, sulfurea e lupesca, che potremmo dire per certi versi femminista, per altri (o gli stessi) verghiana, anche nella perlustrazione-perorazione di una carnalità martoriata e vilipesa, come a invertire i termini di un incantesimo ad mortem che si rivela ad amorem, anziché all’incontrario. Un discorso carsico sul desiderio, i suoi fantasmi e i suoi turbamenti (anche psicosomatici).

È una sottotraccia satirica e polemica che accenna a una disperata e dolorosa, ma anche vitale e liberatoria, sensualità bulgakoviana con implicite allusioni. Maestra di arcane diavolerie, di pozioni, di unguenti, dell’apprendista strega Caterinetta è una donna di Casal Monferrato che si chiama Margherita e assume “forma di gatto” nel suo misterioso dileguarsi e rimaterializzarsi: “E qui siamo tentati”, ammicca Sciascia, “di darci a un gioco di citazioni, di richiami, di suggestioni. Ma lo risparmiamo al lettore, anche perché può farselo da sé”.

A “questa vicenda di tragica stupidità, e sordida”, che a un certo punto della festività natalizia in cui si svolge ne pare “la dolorosa, negativa, blasfema parodia”, Sciascia oppone un controcanto amaramente sarcastico che fustiga la schiera composita ma coesa dei persecutori, le superstizioni della Chiesa, la gratuita ferocia dei torturatori.

E tanto più spietata quanto più inutile ai fini che ipocritamente si prefigge.

Che la tortura non fosse un mezzo idoneo a scoprire la verità, a strapparla all’imputato con le sue stesse carni, il suo sangue, le sue ossa, “i giudici lo sapevano anche allora, si sapeva anche da prima che Pietro Verri scrivesse le sue Osservazioni sulla tortura, si è saputo da sempre”, in virtù di quella ragione universale conclamata dall’Illuminismo ma che “perennemente è corsa, vena più o meno affiorante, anche nel tempo più distante e oscuro. Di pochi, d’accordo: ma viva”.

Di pochi, di minoranze più o meno sparute. Talora di singoli più visionari o lungimiranti, più coraggiosi o temerari, più probi o candidi. In una proporzione che non muta di molto nei tempi. Nemmeno i nostri.