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04/02/2020 06:00:00

Notte degli Oscar 2020. Joker di Todd Phillips o della citazione/1

La Notte degli Oscar si avvicina. Il 9 febbraio assisteremo alla 92ª edizione del premio cinematografico più atteso e più ambito dell’anno. Tra i protagonisti di questa edizione il controverso Joker di Todd Phillips, che concorrerà agli Academy Awards per undici candidature. Oggi e domani ne scrive per TP24 Mario Valentini per la sua rubrica Intanto 

di Mario Valentini

Il 9 febbraio a Los Angeles verranno assegnati gli Academy Awards, e con ogni probabilità si tornerà a parlare in modo massiccio di Joker di Todd Phillips. E allora di nuovo, come a settembre, quando il film vinse la Palma d'oro a Venezia, si riaprirà il dibattito tra appassionati di cinema: su Joker sì o Joker no; su Joker no perché è un film da un fumetto o Joker sì appunto perché è un film da un fumetto. O nonostante lo sia. O nonostante tradisca il fumetto. Eccetera eccetera. 

Il gioco, poi, si ingarbuglierà non poco. Perché tra i nominati all'Oscar c'è anche Quentin Tarantino con C'era una volta a... Hollywood, per il quale pure – come d'abitudine quando esce un suo film – si sono creati i partiti del sì, del no e del forse. Gli altri film candidati all'Oscar invece non hanno scatenato lo stesso effetto-dibattito, tranne forse The Irishman di Martin Scorsese (soprattutto per motivi di produzione). Comunque, non è certo nelle mie corde stare lì a ragionare su quale film o regista vincerà gli Academy Awards, e come, e quanti ne vincerà. Sarebbe come parlare di ciò che succede nell'iperuranio standosene seduti da qualche parte nelle campagne intorno a Canicattì (luogo dal quale, nemmeno troppo metaforicamente, certe volte mi sembra di scrivere), senza essere astronomo e non avendo a disposizione nemmeno un telescopio adatto a scrutare il cielo.

In Italia intanto, ma questa è un'altra storia, avremo appena conosciuto il vincitore del settantesimo festival di Sanremo, che è forse il piccolo, vero e unico evento-oscar di casa nostra, con relativi schieramenti del sì, del no e del forse sulle canzoni e sul Festival in genere. 

Intanto, chi non è potuto intervenire su Joker alla prima occasione, avrà una seconda chance per dire la sua, soprattutto se -come è prevedibile, visto anche l'alto numero di nomination avute – il film dovesse vincere qualcuno dei premi principali. Potrà dunque dire anche lui se Joker sì o Joker no o Joker forse. Eccetera eccetera. Semplici appassionati di cinema o addetti ai lavori.  Per questo è bene anticipare la data e scriverne prima, magari riuscendo anche a dire la propria su Joker (se sì, no o forse), del tutto fuori tempo: in forte ritardo rispetto al Leone d'oro e all'uscita del film nelle sale italiane ma in anticipo sugli Oscar. Al di fuori di quella precisa unità di misura giornalistica che è la notizia. Fuori battuta, dunque, come pessimi musicisti.

Joker è un film pieno di citazioni. È inevitabile che lo sia. È nella sua natura intrinseca, se così si può dire, essere un film di citazioni. Se così si può dire, è un film che ha la citazione nel DNA. Come se uno facesse un film su Ulisse o su Achille o su Ettore. Può non citare qualcosa o qualcuno? Quanto meno l'Iliade, se non proprio altre fonti. E lo stesso avviene per Joker. Quante storie su o con Joker esisteranno?  Puoi non citare? Puoi fare Joker, per dire, senza vestirlo da jolly o pagliaccio, senza alludere al circo, senza farlo diventare il più cattivo e crudele antieroe che ci sia, senza mostrarne la follia? Se già fai questo hai buttato giù un mucchio di citazioni. E non puoi non farlo, non racconteresti più Joker.

Joker è un assunto, si è ormai affermato come uno dei capisaldi della nostra cultura di massa dal secondo dopoguerra a oggi, che tutti conoscono. Secondo forse, per fama e longevità, alla regina Elisabetta II e a Superman. Lo dai per scontato, non hai bisogno di spiegarlo se non a un bambino di tre anni. Poi il bambino di tre anni impara e anche parlando con lui lo dai per scontato. Negli ultimi tempi ha forse superato per fama il suo eterno nemico Batman. Si è ricavato una sua autonomia, non ne subisce più la dipendenza (al massimo, è Batman che continua a dipendere da Joker, senza il quale il suo supereroismo risulterebbe molto sminuito).

Ma è questo il primo tradimento del film di Todd Phillips: oltre a essere un assunto, Joker è un assioma. Qualcosa di autoevidente, che si spiega da sé. È il super-cattivo, la cui cattiveria e follia è anch'essa un assioma e si spiega da sé. Senza bisogno di biografia, motivazioni, radici. Basta la sua leggenda, una leggenda estrema, a darne conto. Invece Todd Phillips la spiega, questa folle cattiveria. Prova a rintracciarne le radici, vuole renderla determinata, cerca di sciorinare delle motivazioni psicologiche all'interno di una biografia come se si trattasse di qualcosa che sarebbe anche potuta essere evitabile, in condizioni diverse, intrecciando alla storia di Joker perfino alcuni motivi politici. Ed è già questa, forse, la prima ragione per cui – per quel che mi riguarda -  il film fa un po' cilecca, anche perché le implicazioni socio-politiche risultano superficiali, raffazzonate o appena abbozzate. Stanno in piedi a fatica. Cosa che in un fumetto di supereroi accetti di buon cuore perché fa parte del gioco (anche se non escludo che certi fumetti o film abbiano anche saputo contenere buone sintesi storico-politiche), in un film che prova a sganciarsi dal fumetto per diventare altro può invece sembrare debolezza di scrittura. Cosa rimane, infatti, nel Joker di Phillips, del super-cattivo dei fumetti?

Da sempre i fumetti tirano dentro il loro mondo fantastico le grandi paure o i grandi temi del proprio tempo. Si aggiornano continuamente. Ma non "trattano" mai, o raramente lo fanno, tali paure. Non sembrano in grado di "affrontare" né tanto meno di "esaurire" tali temi. Più che altro li vampirizzano, gli succhiano il sangue, li saccheggiano con furia come affamati predatori.  

Hanno una gran capacità, i fumetti, di rispondere o reagire alle sollecitazioni del proprio tempo, pur rimanendo radicati in se stessi. Nelle prime versioni di Spiderman, per dire, il giovane Peter Parker veniva morso da un ragno che aveva subito inavvertitamente delle radiazioni e che gli inoculava dunque un veleno radioattivo. Erano gli anni '60, con le inquietudini della Guerra Fredda e della guerra atomica. Nel film Spider-Man di Sam Raimi, del 2002, le inquietudini sono cambiate: Peter Parker viene morso da un super-ragno geneticamente modificato, una specie di ragno mutante. In JLA – Torre di Babele, una storia in quattro parti della Justice League of America (credo sia del 2000) Batman crea un bel guaio raccogliendo segretamente un enorme archivio-dati con tutte le caratteristiche, i punti deboli, le criticità dei suoi compagni, supereroi della Jaustice League (da Superman a Wonder Woman a Flash, ecc.). Quando quell'immenso archivio di dati finisce nelle mani sbagliate l'intera Justice League rischia di essere spazzata via per sempre dai nemici perché tutti i supereroi si ritrovano vulnerabili, i propri più nascosti segreti ormai sono in mano di chi li vuole annientare. Nel frattempo l'umanità subisce gli effetti di un ingegnoso macchinario capace di creare una vera e propria catastrofe linguistica, perché inibisce la capacità degli umani di leggere e di decodificare segnali e codici. Sembrerebbe un riferimento chiaro ai cosiddetti Big-data, l'enorme accumulo di dati personali in rete, e ai rischi che tale accumulo comporta in termini di controllo degli individui. 

Con Joker l'intento di Phillips era quello di reiterare il fumetto? Sembrerebbe piuttosto il tentativo di spostare la figura di Joker su un piano più realistico rispetto ai fumetti di suopereroi nei quali è nata. Si spinge tanto in questa operazione che si fa proprio fatica a considerarlo un film nato dal mondo dei fumetti. I lettori incalliti di fumetti probabilmente non lo hanno riconosciuto come "cosa loro", intanto molti cinefili lo hanno snobbato o rifiutato proprio per la sua derivazione dal mondo dei fumetti di supereroi. 

Ricostruire le origini di Joker non è certo una novità del film di Todd Phillips. È già nei fumetti. In Batman: The Killing Joke (1988) Alan Moore e Brian Bolland raccontavano la storia di un brav'uomo, vittima della società: un ex impiegato di uno stabilimento chimico che ha lasciato il lavoro per seguire un'incerta carriera di comico, che si rivelerà fallimentare. Ha una moglie che aspetta un bambino e non sa come assicurare loro una vita dignitosa. Così si lascia tirar dentro, da una banda di criminali che vogliono sfruttare la sua conoscenza dell'area dello stabilimento chimico in cui lavorava, in una rapina che finirà male e il cui piano verrà messo in atto (contro la stessa volontà del futuro Joker) a poche ore dalla notizia della tragica morte di sua moglie e del bambino: la banda di criminali verrà sterminata e il futuro Joker andrà a finire in una vasca piena di sostanze chimiche, dalla quale riemergerà trasformato nel pazzo criminale che tutti conosciamo. Anche il Joker di Tim Burton, nel 1989, appena a un anno di distanza da quello di Moore e Bolland, diventa Joker finendo in una vasca piena di sostanze chimiche. Però non era una vittima della società, il Jack Napier di Tim Burton. Era uno della malavita, un boss in carriera. Le sostanze chimiche hanno compiuto la trasformazione di un tizio già irrimediabilmente compromesso con il crimine in un folle genio del male. Come il Joker di Moore, anche quello di Phillips è dunque una vittima della società. È vittima dell'austerità, della fine del welfare che taglia via i servizi psichiatrici e la distribuzione di sostegno farmacologico a chi si trova in stato di precaria sanità mentale, della crudeltà dei colleghi di lavoro (fa il clown, di lavoro, e anche lui è un comico fallito), della tracotanza dei ricchi e di una società spaccata in due dalle differenze di classe, con una minoranza di straricchi che ha abbandonato i poveri al loro destino (molti, in effetti, hanno individuato nella società descritta nel film i tratti tipici del cosiddetto tardocapitalismo neoliberale). Anche lui, come il Joker di Moore, ha a casa, una casa misera e scalcinata, qualcuno che l'aspetta: qui è sua madre, lì era la moglie. La dipendenza dai Joker precedenti è inevitabile, anche se qui – si è detto – Joker diventa tutt'altro. Ma affinché rimanga almeno una piccola traccia di Joker le citazioni esplicite sono inevitabili. Altrimenti ti ritrovi ad aver tagliato tutti i ponti con il personaggio seriale. Il vero problema è che nel film, oltre alla naturale dipendenza narrativa da tutte le altre storie di Joker, la maggiore e più strutturale dipendenza è da altro. 

Tutta la vicenda di Joker che commette un eccidio in diretta da uno studio televisivo è certo già nella tradizione di Batman: l'idea era già nel Ritorno del Cavaliere Oscuro (1986) di Frank Miller (in cui la critica alla telecrazia è ben più corrosiva, tesa, insistita e – se così si può dire, visto che è stato realizzato negli anni ottanta – molto più attuale e "sulla battuta" che nel Joker di Phillips, nel quale abbiamo come l'impressione che sia un po', come dire, archeologia). Quello che non torna, e che anzi infastidisce proprio, è la profonda e totale dipendenza del film di Todd Phillips da Taxi Driver e Re per una notte di Martin Scorsese. In cui pure la critica alla telecrazia è feroce e sostenuta da un'ambiguità delle situazioni narrative meravigliosa e beffarda.  È tale l'insistenza con cui il futuro Joker fa con le due dita il segno della pistola che si spara al cervello, indimenticabile nel finale di Taxi Driver, che lo spettatore non può che ripetersi nella mente: "Va bene! Me lo volevi fare capire? L'ho capito! Non c'è bisogno che me lo dici ancora, l'ho capito, è Taxi Driver". Anche il balletto di Joaquin Phoenix (comunque bravissimo, nella parte di Joker) proposto per la prima volta allo specchio dopo il primo omicidio, viene ripetuto da allora tante di quelle volte che alla fine il personaggio un po' crolla e di nuovo ti viene il sospetto che lo sceneggiatore e il regista fossero un po' a corto di argomenti. Tanto che quegli argomenti mancanti li hanno dovuti trovare nella citazione, questa però voluta e forzata e insistente, tutt'altro che inevitabile, proprio dei film di Scorsese. Una citazione e una dipendenza, quella dai film di Scorsese, talmente smaccata e strutturale da rasentare il plagio (se non fosse che, essendo Martin Scorsese uno dei produttori del film, il plagio deve essere stato del tutto bene accetto o ben voluto o ben tollerato). 

MARIO VALENTINI è nato a Messina nel 1971, ha studiato e lavorato a Bologna, ora vive a Palermo. Molti suoi racconti sono stati pubblicati in rivista (Il semplice, Fernandel, Il caffè illustrato, Mesogea, Margini), in diverse antologie, in riviste online (minima&moralia, zibaldoni, mesogeamag). Ha collaborato per diversi anni con l'edizione palermitana de la Repubblica. Ha fatto parte del gruppo che realizzava Il Semplice, messo insieme e guidato da Ermanno Cavazzoni e Gianni Celati. Ha pubblicato i libri Voglia di lavorare poca (Portofranco, 2001), In certi quartieri (Mesogea, 2008), Come un sillabario (Mesogea, 2015), Così cominciano i serial killer (Mesogea, 2018), La minuscola (Exòrma, 2018).