Continua il nostro speciale su Joker di Todd Phillips, candidato quest'anno a unidici premi Oscar. Per la rubrica Intanto lo scrittore Mario Valentini riflette sui modelli della maschera di Joker, sulle sue origini e sull'efficacia delle sue reinvenzioni. Potete leggere la prima parte qui.
di Mario Valentini
Che l'immaginario dei supereroi, se ben citato, offra delle possibilità di sceneggiatura intriganti e dalle molte germinazioni immaginative, anche in racconti dai tratti molto più realistici rispetto ai film di totale derivazione fumettistica, lo sappiamo da un po'.
Mi vengono in mente due film risalenti agli anni 2014-2015, totalmente diversi tra loro, in cui questo accade: come versione piuttosto raffinata, il Birdman di Iñarritu (in cui Michael Keaton, che interpretò Batman nel film di Tim Burton, recita la parte di un attore hollywoodiano noto per avere interpretato al cinema il supereroe Birdman, che prova a ricostruirsi una carriera come attore nel teatro d'autore) e, in versione più viscerale e grintosa, un film italiano: Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti.
In Lo chiamavano Jeeg Robot c'è una citazione evidente e riuscitissima, che entusiasma invece di irritare, proprio dal Joker di Tim Burton e da quello di Alan Moore. Enzo Ceccotti, interpretato da Claudio Santamaria, è un ladruncolo di borgata piuttosto spiantato e malmesso. Cade nel Tevere, dove sono stati (criminalmente) nascosti dei bidoni pieni di sostanze radioattive, da cui viene contaminato. Dopo una notte di febbre e convulsioni, si risveglia la mattina dopo stranamente guarito. Scoprirà presto di avere sviluppato un'invulnerabilità e una forza sovrumana da supereroe.
Vorrei avere l'abilità di un Gianni Rodari quando nella Grammatica della fantasia, partendo dall'analisi dell'indovinello tradizionale della scrittura come una nera semenza, era capace di mostrare il procedimento logico attraverso cui si può produrre un buon indovinello del tutto inedito. Allo stesso modo mi piacerebbe dimostrare il preciso procedimento logico attraverso il quale si possa produrre, e di conseguenza distinguere o riconoscere, una citazione produttiva, da una citazione improduttiva (o stanca, o stantia).
Nel Joker di Todd Phillips, infatti, ho come l'impressione che la citazione dei film di Scorsese risulti un po' stantia o furbacchiona. Perché è come se non producesse nessuna nuova e particolare visione. Sembra piuttosto corrispondere alla funzione della stampella o dell'impalcatura. È come se servisse allo sceneggiatore a fare scivolare la figura di Joker dal piano fantastico del fumetto al piano della realtà in modo abbastanza plausibile e senza colpo ferire. È come se lo sceneggiatore avesse trovato lì, in quei film, già esistente e ben rappresentato, ciò che gli serviva per riportare la storia di Joker da una Gotham City popolata da supereroi che volano e combattono in cima ai grattacieli a una metropoli più o meno realistica che per molti versi ha molte delle caratteristiche di Gotham City pur rimanendo totalmente plausibile su un piano di realtà. Ha incrociato le due città, lo sceneggiatore, Gotham City e la New York di Taxi Driver, notando che sovrapponendone alcune caratteristiche appattavano abbastanza. E così è come se due griglie, astratte dalle loro caratteristiche fisiche esteriori, fossero state sovrapposte. E l'una è stata usata per sostenere l'architettura narrativa dell'altra: racconto dei bassifondi corrotti; descrizione dello schifo delle sue strade; personaggi borderline ai margini della società; normali cittadini senza qualità, dai mestieri umili, ma internamente alterati, la cui insanità mentale a un certo punto rompe gli argini spingendo alla cieca violenza. La dinamica è proprio uguale. Le due griglie, sovrapposte, coincidono in molti punti fondamentali, quelli che servono a tenere solidamente in piedi l'impalcatura. Anche la violenta follia come risposta a una frustrazione personale che ha radici sociali, è proprio identica.
Il fatto è che, utilizzando le storie del Travis Bickle di Taxi Driver e del Ruper Pupkin di Re per una notte come modelli di riferimento, Todd Phillips riesce certamente a liberare Joker dal cattivo che conoscevamo nel fumetto, facendo di lui un personaggio dai tratti nuovi e finora mai visti. Ma quel personaggio che ne nasce, grazie all'ampio maneggio e rimaneggio di situazioni già viste nei due film di Scorsese, risulta molto più debole di Travis Bickle o Ruper Pupkin. O magari lui proprio no: Joaquin Phoenix è talmente bravo da riuscire a dare al suo personaggio uno spessore unico, autonomo e genuino. Ma la città in cui è ambientata la storia rimane molto meno potente della New York raccontata e filmata in Taxi Driver; e la seduzione delle trasmissioni televisive, capace di generare follia, desiderio di fama e emulazione, rimane molto meno sinistra di quella raccontata in Re per una notte; e la dinamica con cui il protagonista passa dall'anonimato alla celebrità rimane molto meno sottile e beffarda di quanto non accada nei due film di Scorsese. La citazione smaccata di questi due film condanna Joker a esserne la controfigura, il surrogato, un lontano parente che vive della rendita lasciata da quei due prozii, senza che il film nel suo complesso riesca a emanciparsi mai pienamente dalla loro tutela. È un film che ha bisogno di un'impalcatura mutuata da altro per reggersi in piedi.
Quel che qui succede è che Taxi Driver rinnova Joker, effettivamente lo rivivifica, lo sposta dal piano in cui eravamo abituati a vederlo (ma non è detto che poi Joker di questo spostamento ne guadagni), reinventa il fumetto, ma non fa deragliare anche Taxi Driver verso un terreno di senso nuovo non ancora immaginato. Tutto ricade sul film e dentro il film, senza riuscire a sollecitare cortocircuiti nuovi. Cosa che una citazione produttiva dovrebbe fare, reinventando lo stesso modello che viene citato, spostandolo su un altro terreno che ne rinnovi il senso, mentre lo reinterpreta. Altrimenti, è solo un espediente utile per trovare la quadra in qualcosa che non si sa esattamente come fare quadrare. Una stampella, appunto.
Quando Enzo Ceccotti in Lo chiamavano Jeeg Robot cade nel Tevere contaminandosi, succede che una situazione narrativa (una citazione) apre nella tua testa, improvvisamente, una notevole sequela di ragionamenti, una serie velocissima di spostamenti del piano del significato, un gran proliferare di connessioni, ragionamenti, risignificazioni, analogie. Una citazione produttiva, insomma, dà un'accelerazione alle tue sinapsi, ammesso che sappiano ancora accelerare, che la citazione stantia non innesca nemmeno se le tue sinapsi sono in grado di volare.
E a venire riscritta, a potenziarsi di senso, ad arricchirsi di significati e di esiti imprevisti, a ricevere un po' di superpoteri insomma, se si può usare questa metafora, non è soltanto la nuova situazione narrativa del film nuovo, ma anche la situazione citata, appartenente al vecchio fumetto o film di trenta o quarant'anni prima, che nell'essere in un certo qual modo reinventata trova un'apertura tutta nuova e inedita. Brilla di luce nuova. Gotham City è una città malata e malsana, come Roma oggi. La Roma di oggi, con il suo Tevere radioattivo, ci spiega il perché di Gotham City ieri. Perché ieri c'è stato bisogno di inventarsi Gotham City con le sue fabbriche in via di smantellamento e le sue vasche piene di sostanze chimiche. I piccoli criminali di borgata che si contendono piazze di spaccio, piccoli commerci illeciti e aspirano a diventare grandi boss, quando assumono superpoteri riescono veramente a renderci pienamente comprensibile, vicino, familiare il mondo dei supereroi. Ne capiamo la necessità, il perché siano stati creati e immaginati. Il Joker di Todd Phillips nega il mondo dei supereroi, lo rigetta, lo allontana da sé, proprio mentre ne prende in prestito una delle figure più emblematiche. Lo chiamavano Jeeg Robot celebra invece quel mondo, rivelandone tutte le potenzialità narrative ancora inespresse, le possibilità di ridefinirle spaesandole, reinventandone i tratti, dopo avere operato una serie di spostamenti di piani: da Gotham a Roma, dalla fabbrica al Tevere, dalla grande metropoli alla borgata, dai supereroi ai piccoli criminali. Ecco un altro spostamento di piano: la prima cosa che fa Enzo Ceccotti quando scopre di avere i superpoteri non è pensare a un piano criminale per impradonirsi di tutte le banche della città (come forse avrebbe fatto un supercattivo dei fumetti), ma è sradicare uno sportello bancomat con la sua nuova forza mostruosa e portarselo a casa per raccattare un po' di centinaia di euro. Enzo non sa bene cosa farsene di quei super-poteri, non ha un progetto su di essi. Solo dopo molto tempo arriva a capire che li può/deve usare per fare del bene agli altri.
Alla fin fine, quella di Lo chiamavano Jeeg Robot, è in tutto e per tutto una parodia dei fumetti di supereroi. Affettuosa e non priva di ironia. Ci ricorda che ovviamente i supereroi non esistono ma sono formidabili strumenti narrativi, che è possibile rivivificare più e più volte ridefinendone i tratti in storie anche molto diverse tra loro. È la stessa esiguità del tratto, la loro essenzialità iconografica, la loro dinamica asciutta, condensata e netta a renderli libri da scrivere e da riscrivere numerosissime volte, aperti e disponibili a infiniti ritorni. È talmente duttile, malleabile, capace di germinare, il tratto esiguo e sottilissimo dei personaggi seriali dei fumetti di supereroi, che possono perfino produrre una loro totale negazione, quale è il Joker di Todd Phillips: perfino la sua risata malvagia non è più una risata malvagia, ma una risata incontrollata ricondotta a una sindrome neurologica che a quanto pare ha degli analoghi tra le sindromi realmente esistenti. E il suo profilo psichico è assimilabile a quello di esistenti gravissime psicopatologie. Non è più il frutto di una giornata andata storta, come in The Killing Joker di Alan Moore. Ed è un peccato. Perché è proprio quella giornata andata storta, immotivata per com'è, che consegna Joker alle nostre fantasie perché possiamo raccontarlo ancora una volta. Non l'ultima.
MARIO VALENTINI è nato a Messina nel 1971, ha studiato e lavorato a Bologna, ora vive a Palermo. Molti suoi racconti sono stati pubblicati in rivista (Il semplice, Fernandel, Il caffè illustrato, Mesogea, Margini), in diverse antologie, in riviste online (minima&moralia, zibaldoni, mesogeamag). Ha collaborato per diversi anni con l'edizione palermitana de la Repubblica. Ha fatto parte del gruppo che realizzava Il Semplice, messo insieme e guidato da Ermanno Cavazzoni e Gianni Celati. Ha pubblicato i libri Voglia di lavorare poca (Portofranco, 2001), In certi quartieri (Mesogea, 2008), Come un sillabario (Mesogea, 2015), Così cominciano i serial killer (Mesogea, 2018), La minuscola (Exòrma, 2018).