di Massimo Jevolella
L'islamofobia non è un'invenzione di Oriana Fallaci e dei popoli occidentali spaventati dal terrorismo jihadista dopo l'undici settembre del 2001. A voler essere pignoli, i primi islamofobi della storia furono, quattordici secoli fa, gli stessi arabi politeisti della Mecca, che quando udirono Maometto predicare nelle piazze come un profeta del monoteismo, subito si diedero a tirargli sassate e a gridargli: “Taci majnùn!”, che in arabo vuol dire “ottenebrato”, ossia demente e matto da legare. Dopo questi arabi, presto messi a tacere a suon di legnate in una serie di battaglie, furono gli ebrei di Medina – città che allora si chiamava Yathrib – a sbeffeggiare Maometto, e a respingere la sua pretesa di essere il nuovo Mosè. Maometto per un po' ebbe pazienza, poi, esasperato, li fece sterminare, e la faccenda si chiuse così. Ma dopo questi ebrei, furono i cristiani di Siria e di Andalusia – non tutti, per la verità, ma solo i più ferventi nella difesa della loro fede – a rivoltarsi contro l'Islàm, e a inventare ogni genere di calunnie contro Maometto. Un'incredibile valanga di fake news islamofobe cominciò da allora a inondare l'Europa, senza più sosta fino all'epoca delle Crociate, al “sacro macello” di Lepanto e ancora molto oltre, fino a Voltaire e all'epoca moderna.
Eppure, se vogliamo dare un senso culturalmente più preciso e “attuale” al concetto di islamofobia, è nella transizione di pensiero verificatasi nell'Italia del Trecento tra Dante e Petrarca, che noi la dobbiamo cercare. Furono proprio loro, i fondatori della nostra lingua e della nostra civiltà letteraria, a definire per sempre i due poli ideali di riferimento della nostra visione dell'Islàm. Perché dico così? Perché nella profonda diversità delle loro concezioni scientifiche e filosofico-politiche, il nodo dei rapporti con l'Islàm è addirittura centrale.
Semplifichiamo al massimo la questione. Partiamo da quei versi tremendi del canto XXVIII dell'Inferno, dove Dante incontra Maometto, e lo vede orrendamente squarciato dal mento fino all'ano, con le budella di fuori. Perché un castigo così atroce? La risposta è nelle parole dello stesso Maometto, che confessa al Poeta di essere stato gettato così nel fondo della voragine infernale, insieme al suo cugino e genero Alì, per espiare la colpa di avere seminato “scandalo e scisma” nel mondo. Dunque, per la legge del contrappasso, a chi ha diviso tocca essere diviso, lacerato. Ma è qui che nasce la nostra curiosità. Di quale realtà sta infatti parlando Maometto a Dante? In quale mondo egli avrebbe seminato la divisione? Certo non nel mondo intero, perché la cosa non avrebbe senso, se noi consideriamo Maometto per quello che realmente fu, ossia il fondatore di una nuova religione monoteista di ispirazione abramica che soppiantava il politeismo dell'Arabia preislamica. È evidente dunque che Dante si riferisce unicamente al mondo cristiano. Per lui, come per tutti gli europei del suo tempo, l'Islàm non è una religione aliena, ma una fede scismatica, un'abominevole eresia di stampo ariano nata nel seno stesso del Cristianesimo.
Dovremmo dedurre da questo che Dante era un islamofobo? In un certo senso sì, ed è ovvio. Eppure è proprio qui che il discorso si complica e si fa ricco di sorprese. Per prima cosa, ci chiediamo infatti: ma che cosa sapeva effettivamente Dante di Maometto e dell'Islàm? E la risposta è sconcertante: non sapeva nulla. Intendiamoci, non proprio nulla di nulla. Riguardo a Maometto, sapeva quello che tutti più o meno sapevano, ossia quella gran massa di calunnie e di ridicole fandonie che la fervida fantasia islamofoba aveva elaborato nel corso dei secoli. Riguardo poi alla religione islamica, la confusione e il buio nella sua mente erano ancora più fitti. Da tutte le opere di Dante, per esempio, non traspare nemmeno il più pallido indizio del fatto che egli avesse mai letto una sola riga del Corano, benché il libro sacro dell'Islàm fosse ai suoi tempi disponibile nella versione latina eseguita in pieno secolo XII a Toledo da Roberto di Kenneth per ordine di Pietro il Venerabile.
Ma c'è di più. Ed è che Dante, a dispetto di questa sua islamofobia “ufficiale”, era in realtà un apertissimo e profondissimo estimatore di tutto l'immenso patrimonio scientifico e culturale, e specialmente filosofico, che dal mondo islamico si era riversato sull'Europa cristiana soprattutto tra i secoli XII e XIII. Indagando su questo fronte, potremmo passare di meraviglia in meraviglia. Potremmo scoprire addirittura che l'universo mentale di Dante era non meno “saracino”, ossia imbevuto di cultura islamica, di quanto non lo fosse stato quello dell'imperatore Federico II, lo Stupor mundi che intratteneva epistolari col filosofo arabo andaluso Ibn Sab'in e sentiva il fascino del richiamo dei muezzìn dall'alto dei minareti. È questo il Dante che colloca nel Limbo, tra i grandi del passato che non furono cristiani, i filosofi Avicenna e Averroè, e non solo, ma anche il Saladino, ossia proprio il sultano che nel 1187 aveva umiliato i cavalieri templari e strappato Gerusalemme alle mani dei cristiani. Ed è questo il Dante che molto probabilmente non si fa scrupoli nell'attingere all'arabo Libro della Scala di Maometto – ai suoi tempi tradotto in latino e in francese – per elaborare in vari punti e in vari aspetti la visione dei regni oltremondani confluita nella Divina Commedia.
Tirando le somme: come non rimanere stupefatti dall'universalismo del pensiero di Dante? Dell'uomo che definiva se stesso come “cittadino del mondo”? E come non sentire riduttiva o quanto meno inappropriata l'attribuzione di “islamofobia” che certuni – compresi ovviamente i musulmani più inavveduti o fanatici – sicuramente vorrebbero ancora affibbiargli? Alcuni anni fa, nella piena tempesta del terrorismo gihadista che aveva investito l'Europa, un gruppo salafita aveva perfino progettato un attentato contro la cattedrale di San Petronio a Bologna, dove si trova un affresco, di ispirazione dantesca, che raffigura Maometto straziato nella sua pena infernale. Oggi la cattedrale è sorvegliata giorno e notte dalle forze dell'ordine, perché quell'allarme non è ancora cessato.
E ora consideriamo Francesco Petrarca. Con lui, la nostra meraviglia si muta in sconcerto. Il poeta di Arezzo nasce nello stesso periodo in cui Dante sta scrivendo la Commedia. Ma il suo mondo, e la sua visione dell'Islàm nel suo complesso, sono radicalmente cambiati. Con Petrarca l'islamofobia compie un salto di qualità, diviene un programma ideologico consapevole e radicale. Si trasforma in odio, in avversione totale e in guerra senza quartiere. In vero e proprio manifesto di uno “scontro di civiltà”. Nella sua intolleranza furibonda verso la filosofia averroista, da lui giudicata nemica della fede cristiana, Petrarca scatena una vera e propria campagna di linciaggio morale contro gli arabi e contro ogni forma di pensiero che si possa collegare alla cultura islamica. Definisce Averroè, che Dante aveva invece esaltato come l'autore del “gran commento” aristotelico, come un “cane rabbioso che agitato da furore indicibile latra contro Cristo e contro la fede cattolica”. In una lettera all'amico Giovanni Dondi scrive, al colmo dell'ira: “Ti supplico, in nome di Dio, di non tenere in nessun conto gli arabi, come se non esistessero. Io odio questa razza”. E questo perché gli arabi, allora, erano visti come i promotori del progresso filosofico e scientifico. Progresso che urta con i sentimenti mistici e platonici dell'uomo che nel mondo, alla fine, vede soltanto cenere e ombra: “E del mio vaneggiar, vergogna è il frutto, e il pentirsi, e il conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno”.
Non è forse anche per questo, ossia in questo confronto col “mondo chiuso” di Petrarca, che oggi, paradossalmente, noi vediamo la figura di Dante ergersi sempre di più e sempre più chiaramente come quella del vero padre ispiratore e in qualche modo anticipatore della nostra cultura che vive e prospera solo in virtù di una totale apertura?