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12/05/2020 06:00:00

L'antimafia ai tempi del coronavirus: le inesattezze e le liti da fine del mondo

 Ci vediamo su zoom, facciamo, una videoconferenza su meet, c’è una riunione su skype, un’imperidbile diretta su instagram, una call. L’isolamento che ci ha imposto l’emergenza coronavirus, ha reso la nostra agenda piena di impegni. Chi l’avrebbe mai detto. Eppure, siamo passati dallo stordimento per il fatto che non avremmo più potuto celebrare il rito sul quale sembra si fondi ogni aspetto della vita pubblica, politica, lavorativa, in Italia: la riunione, ad una nuova eccitazione, perché abbiamo scoperto che di riunioni adesso possiamo farne, eccome, con una delle tante piattaforme che ci sono on line. Possiamo fare conferenze, lecture, incontri con l’autore, temibilissimi incontri scuola – famiglia. E ne possiamo fare anche di più, perchè mentre prima la presenza fisica era un ostacolo, per la distanza, per l’agenda, per tutto, adesso non c’è più questa barriera. Tutti possiamo riunirci con tutti, ad ogni ora, dappertutto, parlare di tutto, e cercare un nostro micro pubblico, nelle dirette che propiniamo su ogni mezzo. Tanto, in quarantena, cosa c’è da fare. Non è che possiamo stare sempre a cantare Azzurro dal balcone di casa, e anche lì, c’è un vicino che ti riprende (un altro sta prendendo la mira, prima o poi ti tira un piatto addosso).

E insomma, a questo rito non si sottrae neanche il variegato mondo dell’antimafia. Mica si può stare in silenzio, perdere un’occasione per discutere, dibattere, protestare. D’altronde se c’è la chiusura per il coronavirus, c’è la crisi, e se c’è la crisi, c’è la mafia, anzi, le mafie. E quindi anche lì: salotti virtuali, interviste su instagram, dirette facebook, maratone su legalità, memoria, corruzione, vittime, Sicilia irredimibile, governo ladro. 

Anche l’anniversario del barbaro omicidio mafioso di Peppino Impastato è passato così. E di qua al 23 Maggio è tutta un’agenda piena di eventi a cui connettersi.

E dato che tutti hanno un palco, ognuno si sente di dire la sua, ad esempio, negli ultimi giorni, su Impastato, la mafia, il giornalismo.

Tra le castronerie che ho letto ce n’è una che fa così: dall’omicidio di Peppino Impastato ad oggi in Sicilia non è cambiato nulla.

Affermazione falsa, che nega tutto quello che di buono e importante abbiamo fatto noi siciliani nella lotta alla mafia negli ultimi decenni (non anni, decenni). Purtroppo serve, ancora di più in giorni di pandemia, dire che la mafia è invincibile, più del coronavirus. Serve a legittimare carriere e poltrone, pulpiti e diritti d’autore, l’industria del piagnisteo. Ormai ad un Sindaco qualunque, in Sicilia, anche di paesi modesti, basta fare un’intervista per dire che lui è per la legalità e contro la mafia, e la sua carriera è garantita. Mostrare ogni tanto una lettera anonima, denunciare come potenzialmente minatorio un commento non troppo entusiasta sui social, un like mancato. 

Che torto che facciamo a Peppino Impastato e alle altre vittime di mafia, utilizzando il loro sacrificio per il nostro comodo. O per giustificare la nostra pigrizia intellettuale.

Lo dico soprattutto in riferimento a certo giornalismo a tesi, anzi a slogan, che non va in profondità, non approfondisce, e che ha bisogno di descrivere una mafia potentissima, per giustificarsi. Prendiamo questo titolo di Repubblica di un paio di giorni fa. 

Cito testuale: Il pentito di Cosa Nostra: “I boss hanno festeggiato per quelle scarcerazioni”.

E sotto: Pasquale Di Filippo, ex killer: “Hanno esultato per la disorganizzazione dell’antimafia”. Ma ora per le cosche bisogna “evitare altro clamore”. 


Cosa capiamo? Quello che leggiamo. Come negli anni ‘80, i boss che festeggiano per le scarcerazioni, come per gli omicidi eccellenti. Solo che leggendo l’articolo si scopre che il pentito (che essendo pentito sa cose del passato, magari anche recente, ma non è un infiltrato nei covi dei boss ..) mica dice questo. Dice un’altra cosa. Testuale: “I boss di Palermo hanno di sicuro festeggiato per quelle scarcerazioni – sussurra al telefono – so come ragionano, sono stato anch’io un mafioso”. Cioè, lui pensa che abbiano festeggiato. Ma non dice che hanno festeggiato.

Ecco, questo slittamento di senso, minimo, diventa poi valanga, perché tutti gli altri riportano la notizia, e la notizia è nel titolo, e il titolo è la festa, certa, assoluta. E’ questa la mancanza di esattezza che oggi è il vero delitto di chi racconta le cose di mafia. Questo il vero torto che facciamo alla memoria di Peppino Impastato.

Lo sapete quanti boss al 41bis sono stati fatti uscire in questi giorni? 300? No, 3. Eppure sopra abbiamo costruito una narrazione gonfia di strali da fine del mondo. Il tema c'è esiste, guai a minimizzarlo, ma confrontiamoci con i fatti. 

I vertici della giustizia in Italia devono dimettersi non per i mafiosi mandati ai domiciliari – e tra l’altro dobbiamo deciderci: se per i mafiosi non vale il diritto alla salute, o alla giusta pena detentiva, dobbiamo scriverlo nella Costituzione … – ma per i 9 morti al carcere di Modena, una vicenda che abbiamo dimenticato troppo in fretta, che, da cittadino mi provoca orrore e vergogna.

Sullo sfondo si consuma in queste giorni la lite delle liti, tutta siciliana, e dunque tutta italiana, tra il ministro Alfonso Bonafede e il magistrato antimafia per eccellenza Antonino Di Matteo. Per molti è stato come quando hanno fatto Batman contro Superman. E' una specie Il Trono di Spade" dell’antimafia. Certo, che sceneggiatura: Bonafede arriva a fare il Guardasigilli non per merito, ma per urlo, sull’onda del crucifige dei grillini verso tutti i diversamente onesti. Di Matteo arriva oggi al Csm sull’ola del movimento antimafia che lo ha incoronato depositario di verità inconfutabili sui rapporti tra mafia e politica di ieri e di oggi. Sono due estremismi che prima o poi dovevano scontrarsi: troppi ayatollah nella stessa religione.

E anche qui, di tutta questa vicenda, resta l’aspetto meno dibattuto, quello secondo me più grave. Di Matteo dice che non è stato nominato al Dap per le pressioni dei mafiosi, che hanno in qualche modo intimidito Bonafede, che quel posto gli aveva promesso. Bene. Ma è normale che una notizia di reato così grave venga fornita da un pubblico ufficiale (Di Matteo), dopo due anni dalla “notizia criminis”? Perché raccontare ora fatti del 2018? E poi, è normale che una rivelazione venga fatta la domenica sera in tv da Giletti? Si, per loro è normale. Come quelle famiglie che per risolvere una brutta litigata vanno da Maria De Filippi.

Poi si scopre che tutto nasce da un equivoco, una battuta non colta, un silenzio di troppo, un fraintendimento.

Magari la prossima volta fanno una chat di gruppo, una call, una videochiamata. Vedrai che si chiariscono.

Giacomo Di Girolamo