di Katia Regina
Sono pressoché nulle le possibilità che i fatti siano andati diversamente da come la cronaca racconta. Saman aveva scelto di Essere. Lo abbiamo visto tutti attraverso l'accostamento di due foto che mostrano il suo volto: una con quel velo nero che le copre il capo mortificando la sua esuberante bellezza e l'altra che la ritrae libera, solare e sorridente.
Non c'entra nulla l'appartenenza religiosa, nessun Dio rivelato ha mai chiesto tanto.
Sei nata nella peggiore delle famiglie ammorbata da retaggi tribali. Partorita da un utero indegno di procreare. Questa la tua unica colpa.
Perché sei tornata in quella casa?
Perché non sei scappata di notte, quando eri costretta a dormire fuori dalla porta di casa?
Perché non ti sei fatta accompagnare da qualcuno della comunità per andare a riprenderti i documenti?
Lettera a Saman
Perdonaci Saman se non siamo riusciti a proteggerti fino in fondo.
Perdonaci se non ti abbiamo detto la verità fino in fondo. Sì perché non abbiamo avuto il coraggio di dirti che è già successo, e ancora succederà, che si compia il più orribile dei tradimenti. È una storia antica, un peccato originale che il genere umano si tramanda da quando il primo fratello disse all'altro fratello: andiamo ai campi.
Che hanno fatto del tuo corpo?
Fino a dove si è spinto l'orrore?
Ci sono fatti di cronaca che ci cambiano, modificano per sempre il nostro modo di guardare il mondo. Fratture del sistema che quando si rimarginano lasciano segni, anche solo piccoli rigonfiamenti di calcificazione nel punto esatto della rottura. In questi casi bisognerebbe applicare l'antica arte giapponese del kintsugi affinché resti sempre ben visibile quella frattura, un monito per ricordarsi di ciò che è stato.
Consigli per la lettura: Dell'inutile amore di Giacomo Pilati, la mia recensione.