Conobbi prima i suoi libri, com’è normale che sia, da lettore. Per chi ama l’articolo poi, toccare le carte sentirne il profumo, di alcune collane quasi il gusto sadico delle pagine intonse.
Nulla lasciato al caso in quelle costruzioni perfette che erano quei libri e poi la dichiarazione d’amore “Sellerio editore Palermo”, e la città indicava un posto al sud dove oltre la mafia si poteva fare Cultura.
Ognuno di noi nel percorso di questo viaggio bellissimo che è la vita, riconosce uno o più maestri e lui Enzo Sellerio, lo divenne per me.
Ci conoscemmo nel 1994 causa una mostra fotografica che curavo e lui era l’editore del libro, troppo timido io per intrattenere una conversazione o altro che non fossero parole di circostanza. Mesi dopo chiesi udienza e mi presentai: via Siracusa, 50 int.2: volevo conoscerlo, parlare di fotografia e di un progetto che avevo in testa, dieci minuti dopo fui riaccompagnato alla porta. Qualcosa non gli garbò, era evidente. Passarono due anni circa, lavoravo a Palermo e capitava di incrociarci e sempre nella speranza di avere un cenno, lui qualche occhiata che era meglio evitare tanto erano affilati quegli sguardi. Eppure, si presentò l’occasione e quell’opportunità fu la mia svolta. Conobbi un uomo unico straordinario, solo come pochi e ricchissimo di fantasia, mille interessi e una curiosità mai doma. La scusa fu la fotografia, e con tatto e pazienza ho vissuto anni a contatto con un intellettuale vero autentico e quindi scomodo ai più.
Geniale, e mai aggettivo credo sia più adatto a descriverlo. Giovanissimo assistente universitario (lui in verità si definiva assistito…) del Professor Restivo, e questo impiego gli consentì fin da subito di avere un tempo congruo per vivere la sua vera passione ovvero la fotografia, e la fotografia lo ripagò con alcuni servizi e scatti che fanno parte della storia dell’arte, del giornalismo. Il suo essere ironico a volte o spesso caustico emergeva prepotente da quelle perle in medio formato o 35 mm, bianco e nero rigoroso - colore ne ho visto poco, molto poco ma c’è in quell’archivio unico che custodisce la sua opera - e lì dentro tante storie piccole grandi, storie.
Parlare, viaggiare con lui, perdere tempo come flaneur di altra epoca era formazione costante e continua, e quindi incontri della sua vita, il suo approccio visivo era la storia della sua famiglia (sua papà professore di fisica - antifascista - fondò la facoltà di Architettura a Palermo, la mamma ebrea baltica e con un bagaglio culturale per certi versi inedito per i tempi) ritrovavo questo condensato di saperi in alcuni scatti del suo primo periodo_ anni ‘50.
La confidenza nel mentre era diventata frequenza quotidiana e quindi i pranzi in una taverna in cima a Via Dante a Palermo “Ai vini del paradiso”, dove al tavolo sociale potevi trovare dall’operaio dell’Enel al senatore Dell’Utri con i suoi avvocati (dipendeva dall’orario in cui scendevamo quei tre gradini), oppure a casa sua tra libri introvabili conversazioni sulla città che non riconosceva più e cose così. La fortuna di lavorare sui suoi negativi per caso e da lì ho potuto capire molto di quell’uomo di quella sensibilità che arrivava a definire una “fotografia” in pochissimi istanti. L’amore per un certo cinema, la frequentazione rada con alcuni fotografi e il suo carattere sempre più ombroso lo portarono di fatto ad essere parallelo con la società fuori dalla porta della sua casa editrice. La sua stanza, la seconda a sinistra appena si entrava, dopo le 18:00 diventava un circolo di amici che ad appuntamento non convenuto si ritrovavano lì da Lanza Tomasi a Piero Violante a Peppino Leone a molti altri, una Stoà vera nel cuore di Palermo. Lui è stato un punto di riferimento culturale altissimo, Palermo in buona parte questo lo ha dimenticato. Se Giulio Einaudi scendeva a Palermo, era a colazione con lui; Klaus Wagenbach_editore tedesco si innamorò di alcune sue collane e chiese per lettera di poterle copiare: ebbe il permesso. La Mondadori all’indomani del primo successo di Camilleri, vestì alcune sue pubblicazioni con un blue simile: un tribunale pose ordine al tutto. Altro stile.
Fermava il mondo in casa editrice, verso la metà di novembre, per le sue celebri cartoline che tutta Italia e non solo aspettavano, e altro non erano che sintesi condensate estreme di un fatto accaduto o rilevante per lui. Ebbi la fortuna di esserci quando creò quella per l’anno 2000: Stiamo trasecolando, e scherzava tra le stanze della casa editrice, per la sua invenzione; aveva un indirizzario enorme, e per ogni destinatario un pensiero originale e scritto rigorosamente con la sua fountain pen (croce e delizia: spesso era una fountain… con lui che rideva come non mai e inchiostro ovunque) ovvero la stilografica. Al calembour, sua pura invenzione lessicale per cose che vedeva e infilzava all’istante, si contrapponeva il rigore formale nella composizione delle sue fotografie prima e da editore poi: questo diede fastidio a molti, il prendersi gioco.
Non fotografò mai la violenza, lo fece a suo modo e col suo stile e resta unica in tal senso una fotografia tra le tante: Fucilazione alla Kalsa (bambini che giocano).
Cassetti della mia memoria disordinata, a dieci anni dalla sua scomparsa. Insegnamenti che mi porto dietro e che conservo con cura, provando con incerta sorte a farli miei nel lavoro di tutti i giorni.
Lasciai Palermo alla fine del 2002, fu l’ultima persona che volli salutare e tra le poche parole prima di congedarmi “ non smetta mai di essere fiammingo, i dettagli sono la parte del tutto” e con un abbraccio appena accennato, mi salutò. Ci furono poi telefonate lunghe negli anni - sempre verso sera - anche la domenica pomeriggio a volte, su quel libro quella mostra quel fatto; mi mancava moltissimo e mi piace pensare che la cosa fosse reciproca.
Non lo vidi più, pardon, volai da Roma quando seppi della morte della Signora Elvira e andai al suo funerale, e mi riabbracciò ma era finito tutto per lui.
La vita è meravigliosa, per gli attraversamenti se li sai riconoscere che ti fanno crescere e diventare altro. Non fu un fotografo straordinario, un editore fuori dal comune che con sua moglie scardinò i canoni dell’editoria sul finire degli anni ’60, è stato un gigante vero prestato alla sua curiosità innata, ed è questo il regalo vero.
Giuseppe Prode