Qualche giorno fa abbiamo scritto del centenario della morte di Sebastiano Bonfiglio, il sindaco socialista di Monte San Giuliano, ucciso dalla mafia agraria in un agguato il 10 giugno del 1922.
Abbiamo parlato anche dei sui articoli in occasione dell’incontro avvenuto a Trapani con lo scrittore Salvatore Mugno, che ci ha fornito un ottimo contributo di ricerca sul tema della mafia nell’agro ericino tra fine Ottocento e inizio Novecento, proprio basandosi sulla stampa dell’epoca (leggi qui).
Tra gli stralci degli articoli di Bonfiglio ce n'é uno che non è passato inosservato. Riguarda la famiglia Fontana, descritta dal sindaco socialista con toni molto duri:
“…Nel nostro territorio di Monte S. Giuliano impera una sola famiglia: i Fontana. Essi, arricchiti, sono divenuti i padroni dei terreni d’un intiero territorio. Essi hanno divise in famiglie le amministrazioni pubbliche. Municipio, Congrega di carità, Consiglio Provinciale, sono da loro occupati. Quindi l’intera popolazione è sotto il loro dominio. Sotto tale influenza si sentono tanti don Rodrighi. Sono prepotenti, arroganti con tutti […] La loro prepotenza arriva a tal segno da bastonare un contadino per un nulla […] Noi non abbiamo altre parole che queste: Signori di Monte S. Giuliano, la vostra condotta merita il nostro disprezzo. Ma verrà giorno e non lontano in cui i nostri contadini alzeranno la fronte. E quel giorno voi l’abbasserete.”
Ci ha scritto il signor Stefano, uno dei discendenti della famiglia Fontana che, “a tutela della dignità e dell’onore” dei suoi antenati, sottolinea in una lunghissima lettera come Bonfiglio, nell’attaccare i suoi “non pretendeva certo di fare la storia, ma, ovviamente, propaganda elettorale”.
Non abbiamo qui la pretesa di addentrarci nell’analisi delle dinamiche mafiose, politiche e sindacali di più di 100 anni fa, ma riportiamo per intero la lunga lettera di Stefano Fontana (che potete leggere qui, integralmente).
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Egregio direttore,
ancor prima che la deontologia professionale – scrivo, infatti, a tutela della dignità e dell'onore dei miei antenati – è il rispetto per la serietà nell'indagine storica, che dovrebbe suggerirle di pubblicare questa mia rettifica ad un articolo riguardante una conferenza di Salvatore Mugno su Sebastiano Bonfiglio.
Nel centenario della morte del sindaco Bonfiglio, è stato, infatti, organizzato un nutrito numero di conferenze e dibattiti sulla figura del personaggio e di altri esponenti socialisti uccisi da mano mafiosa nello stesso periodo. con una frequenza che ha spinto il mio amico, prof. Salvatore Bongiorno, in una vivida e appassionata commemorazione di un sindacalista di Paceco e della sua vedova, a ipotizzare l'esistenza di un'occulta regia dietro gli assassinii, ipotesi plausibile, sulla quale, però, gli ho ricordato che devono essere addotte necessariamente delle prove.
Quel che mi ha impressionato veramente, ascoltando il predetto relatore, è stato l'osservare che il numeroso pubblico degli astanti aveva le teste canute o cineree, quando non presentava larghi vuoti sul cranio, denotando un'età media che superava i sessant'anni.
Dunque, una conventicola di nostalgici, tutto sommato, la quale cerca nell'epopea degli antesignani del socialismo una ragione giustificatrice delle proprie esistenze, senza neppure chiedersi criticamente come sia stato possibile che un movimento, sorto per nobili fini di riscatto sociale, abbia espresso, una volta preso il potere, rappresentanti divenuti affezionati protagonisti della cronaca giudiziaria, affollata, è la giustificazione, dalla necessità del finanziamento della politica, tesi sovente smentita e dalle ricostruzioni degli inquirenti e dalle decisioni dei giudicanti.
Lo dico perché una minore prosopopea renderebbe più gradevoli i conferenzieri e più riflessivo l'uditorio.
E vengo ai fatti. Bonfiglio, cui va tutto il mio rispetto, sia per le capacità sia per il coraggio e l'intraprendenza, nell'attaccare i miei, non pretendeva certo di fare la storia, ma, ovviamente, propaganda elettorale.
Egli ebbe il merito di avviare l'esperimento cooperativistico, che non era economicamente inviso ai proprietari, perché le cooperative rispettavano i patti convenuti e pagavano i canoni d'affitto. Si poneva, invece, in contrasto coi mediatori, cui toglieva le occasioni di guadagno e da lì lo scontro inevitabile con quegli interessi.
Ciò non vuol dire che il problema sociale era risolvibile nell'ambito del movimento cooperativo, che si accorse presto che le questioni inerenti alla fortissima tassazione dei redditi agrari, peraltro stabilita in modo sperequato e dirigistico da una riforma del catasto eseguita a tutto svantaggio del mezzogiorno dall'Italia unita, erodevano fatalmente i margini dell'imprenditore e non consentivano adeguati profitti,
Secondo Salvemini, la pressione fiscale nel mezzogiorno fu raddoppiata dall'Italia sabauda, secondo Nitti, che dette alle stampe i primi studi statistici sui bilanci del regno unitario, aumentò considerevolmente, anche se egli non precisa l'entità dell'incremento, e fu accompagnata da un forte drenaggio di risorse verso il Nord dove si concentrò la spesa pubblica.
Personalmente, ho accertato che, sotto il regno delle due Sicilie, l'aliquota complessiva gravante su un ricco possidente del sud non poteva superare il 15% in un sistema che basava le sue entrate sulla fondiaria, la cui aliquota era del 12,5%, e sui dazi, che assicuravano all'incirca l'altra metà del gettito, ma addirittura assai minore era il contributo richiesto all'imprenditoria, posto che profitti e salari erano esenti da imposte. Perciò, è facile ipotizzare che la pressione fiscale fosse stata almeno raddoppiata.
I socialisti, non tanto e non solo i capi locali, ma perfino i vertici nazionali, s'erano formati alle sole parole d'ordine marxiste, atteso che pochissimi di loro avevano letto Il capitale e meno ancora erano quelli che avevano inteso correttamente quel lunghissimo, e di certo non agevole, testo.
Come tutti sanno, il perno della teoria economica marxista era la tesi smithiana del valore-lavoro, parzialmente riadattata da Ricardo, che tentò invano di correggerne gli errori più marchiani. Del resto, lo stesso Marx, nel terzo libro del capitale, ammette che talvolta il prezzo può superare il valore e non ci vuol altro per affermare che la teoria è gravemente errata.
La sostanza di quell'argomentazione è che il valore di qualsiasi bene dipende dalla quantità di lavoro in esso contenuta. Secondo Marx, ne viene che ogni imprenditore, nel momento in cui vende il manufatto a un prezzo superiore al costo del salario e degli altri fattori, si appropria, fatalmente e necessariamente, di una parte del valore del lavoro, cioè sottrae al lavoratore un'aliquota delle sue spettanze, il plusvalore.
La teoria si spinge all'estrema conseguenza di dimostrare che l'imprenditore ha convenienza a non investire in beni capitali perché il suo guadagno è maggiore se utilizza il lavoro salariato anziché nuovi processi o macchinari, una previsione totalmente errata, che non tenne conto del fatto che l'automazione riduce, come oggi vediamo, il potere contrattuale del lavoro, il cui valore, come sappiamo, è sceso al di sotto del limite fissato dallo stesso Marx, cioè il costo di riproduzione del capitale umano, ormai del tutto svalutato.
Qui si dovrebbe innestare la riflessione dei nostalgici del socialismo, sulla considerazione del totale fallimento di dottrina e prassi perseguite.
Quale fu, all'epoca, l'errore fondamentale nella pratica politica dei socialisti, che tennero verso i datori di lavoro, per l'erronea tesi descritta, sfruttatori irredimibili e ladri della terra, un atteggiamento di sfida aperta e contrapposizione frontale? Quello di non studiare i bilanci dello stato e, dunque, di non capire quale fosse il ruolo e il peso dello stato nell'economia, questione non casualmente estranea all'analisi economica marxista.
Sotto questo profilo, basta osservare le serie storiche dei bilanci unitari – il primo è del 1862 – per capire quel che accadde nell'Italia unita.
Per tutti gli anni sessanta, alla guerra fu destinato il 40% della spesa totale dello stato, mentre il welfare, che oggi assorbe circa il 20% della spesa, nei primi anni sessanta dell'ottocento, impegnava appena l'1,2%.
Ma tale dato non tiene conto della spesa assistenziale delle istituzioni ecclesiastiche, che fu imponente fin quando la chiesa non venne espropriata dei suoi beni nel 1864.
A quel punto e per ll'effetto, ci si attenderebbe un aumento della spesa sociale negli anni successivi, ma la sorpresa è grande quando si rileva che, nello scorcio finale dell'ottocento, il periodo in cui più intensi furono i moti popolari in tutt'Italia, la spesa sociale addirittura scese allo 0,7% e questo spiega bene il perché del movimento dei fasci siciliani, poi dei moti di Milano e, in generale, il crescere tumultuoso del movimento socialista.
I socialisti, però, anziché tentare di correggere le principali storture di bilancio, l'eccessivo peso del fisco per il finanziamento della macchina della guerra e la bassissima aliquota della spesa assistenziale, attaccarono a testa bassa <gli agrari> del mezzogiorno, i quali, in realtà, erano riusciti, nonostante tutto, a costruire un invidiabile sistema agrindustriale, destinato a crollare sotto il peso della concorrenza dei prodotti settentrionali, avvantaggiati dal concentramento al nord della maggior parte della spesa pubblica e dalla lontananza dai mercati di sbocco dei prodotti del mezzogiorno.
E' questo il quadro in cui si svolgono le lotte contadine, coi capi socialisti incapaci di capire chi fosse il vero destinatario delle loro rivendicazioni, almeno tanto quanto i superstiti del movimento sono oggi incapaci di comprendere perché abbiano fallito nei loro intenti, agevolando perfino, con le inappropriate iniziative condotte contro il <padronato> nelle sedi periferiche, la formazione dei monopoli, di cui, per giunta, si lamentano.
Tanto per non fare nomi, obliano che il successo imprenditoriale del compagno Berlusconi è tutto interno alle dinamiche amministrative reali dei socialisti italiani e, ahiloro, relegano il fenomeno ad effetto collaterale.
Ma tornando a quel che mi interessa di più, è evidente che lo stato di sfida e scontro alimentato dalla propaganda socialista al tempo di Bonfiglio sfociava in conflitti aperti, che non vedevano contrapposti poveri contadini a biechi padroni, come sosteneva la propaganda socialista, ma avversari irriducibili, determinati e informati a criteri di valutazione della realtà economico sociale inassimilabili.
E veniamo ai presunti collegamenti dell'imprenditoria agrindustriale con la mafia, un motivo stonato, introdotto nella storiografia da molti autori, capofila Emilio Sereni.
Considerate le allusioni del Mugno, mi tocca citare un documento inedito in mio possesso, copia del quale diedi a Salvatore Costanza in occasione della presentazione del suo volumetto sul ventennio fascista a Trapani.
In quello scritto, raccontò che nel 1927 il federale di Trapani, Giuseppe Fontana di Stefano, era stato estromesso dal partito con un colpo di mano della segreteria per <incomprensione politica>.
Del fatto, autentico, egli non indicava alcuna causa e lo interrogai, allora, sul perché dell'omissione, al che rispose semplicemente che l'archivio del partito era stato bruciato per cui non vi si poteva attingere alcuna spiegazione.
Perciò gli diedi copia del documento in questione, chiedendogli però di non pubblicarlo per via dei giudizi, assai pesanti, benché pienamente giustificati, su uno stretto congiunto dell'estensore, ai figli del quale non avrei voluto cagionare un dolore.
Si tratta della minuta di una lettera che mio nonno, già segretario del pnf a Monte San Giuliano, indirizzò ad un'eccellenza il cui nome non è trascritto nella copia interna, ma le cui generalità possono però essere accertate dalla stampa d'epoca, visto che si fa riferimento ad una sua visita nel trapanese.
Premesso che mio nonno era primo cugino e cognato del federale, di cui aveva sposato la sorella maggiore, vale la pena di ricorrere alle sue parole per illustrare gli accadimenti.
Antonino Fontana, spiegato che era uscito dal partito quando aveva intuito che si tornava ai <vecchi metodi politici>, da cui era rimasto disgustato, precisava: < Fu causata pure la mia uscita dalla lotto ingaggiata dagli onorevoli Rubino e Maccotta contro la mia famiglia, solo perché quando Sua Eccellenza Mori fu prefetto della Provincia e questi due deputati mirarono non solo a farlo allontanare da Trapani ma forse alla sua destituzione, io ed il segretario federale di allora, Giuseppe Fontana, mio cognato, grati al governo fascista che lo aveva inviato a debellare la maffia da cui avevamo subito onte e danno, fummo di lui fedeli amici, ammiratori e sostenitori, riconoscendogli doti veramente grandi.>
Mi limito a questo breve, ma assai significativo, passo e tralascio la narrazione dell'operato dei due politici, spalleggiati dal nipote ex sorore di mio nonno, avv. Gaetano Messina, che funse da quinta colonna, perché è sufficiente a smentire le sciocchezze sui presunti collegamenti dei miei con organizzazioni malavitose, secondo la narrazione diffamatoria cui avevano interesse da un lato i socialisti, dall'altro coloro che, realmente collegati con ambienti criminali, miravano a distogliere da sé l'attenzione degli inquirenti.
Non mi diffondo sulla provenienza dei due personaggi, non trapanesi, e sulle loro gesta e mi limito a segnalare l'indicazione, da parte di mio nonno, di un certo Barone, castellammarese, che definisce <autentico mafioso interprovinciale> (la cupola esisteva molto prima di quanto non si pensi) e sulla circostanza che c'è un filo che lega le cosche dell'asse del Belice, da Castellammare a Mazara, non interrotto neppure sotto il fascismo, con gli avvenimenti del dopoguerra, quando, per sventare la guerra civile in atto in Sicilia ed evitare la vittoria del movimento separatista, la dc di De Gasperi trattò, allora si, con esponenti delle cosche perché abbandonassero al suo destino il Mis.
L'effetto, amplificato dalla <riforma agraria>, fu l'annullamento della vecchia classe dirigente e la presa del potere, economico e politico, delle cosche mafiose.
Aggiungo soltanto che mio nonno non ebbe neanche la soddisfazione di un'inchiesta del partito, cui pure aveva fatto ripetutamente richiesta, anche per raccomandata, di un confronto con i promotori del rovesciamento della segreteria e finì per concludere amaramente che nulla era cambiato e s'era tornati ai <beati tempi di Nitti>, per usare le sue parole.
Quanto all'arricchimento dei Fontana, ho già avuto modo di spiegare con lettera pubblicata sul sito Trapani Nostra a rettifica di cattive scopiazzature di altro improvvisato storico sulla figura del mio bisnonno, Stefano Fontana, che il padre di lui, Giuseppe, morto nel 1870, lasciò, oltre a cospicue somme in beneficenza, un patrimonio che ne faceva, certamente, il più ricco proprietario del Monte del suo tempo, patrimonio che i suoi figli, Stefano, in particolare, ingrandirono enormemente, riportando nel comune rendite di terre che gli erano state sottratte da secoli, così come quelle della tonnara di Bonagia, in verità mai gestita da ericini prima che ne assumesse la conduzione la mia famiglia.
Tralascio di parlare delle tante iniziative industriali del mio bisnonno, e aggiungo che anche il nonno di lui, Paolo, in quanto proprietario di un'ottantina di salme di terra fra Castelluzzo e gli Acci non era certo un diseredato. Beni equivalenti, nelle stesse contrade, aveva il fratello di Paolo, Antonino, ed entrambi li avevano ereditati dal padre, Stefano.
Ma, andando più indietro, potrei aggiungere che il nonno di quest'ultimo Stefano, Paolo, figura fra i massimi contribuenti della decima per i cinque canonici di Mazara, che il vescovo estorceva agli agricoltori ericini sulla base di un atto del 1404 (AsTp not. Vito Agosta Msg n. 1417 atto 25/4/1715 pag. 541).
Ancora prima potrei citare un diretto antenato della seconda metà del cinquento, Simone La Fontana, marito di Maria Fimia, o un altro Simone di La Fontana del Monte, che compare in un atto del notaio trapanese Alamanno Zuccalà (AsTp reg. 8526 atto 17/2/1413). in cui vende per otto fiorini d'oro un consistente quantitativo di calce della sua calcara ad un trapanese de Caro.
Ma c'è un libro in cui la nostra storia è scritta a caratteri indelebili e inconfutabili, cioè il Dna. Grazie alle ricerche sul genoma umano e alla classificazione estremamente precisa degli aplogruppi, è possibile leggerla, affidandone l'esame a laboratori dotati della competenza necessaria e di molti milioni di dati di confronto nelle loro estesissime memorie.
Ebbene, ho fatto eseguire da un laboratorio americano l'esame del mio per una verifica sulla famiglia di mia madre, ma ho appreso con sorpresa che il 9,3% del mio codice genetico, nell'aliquota di sicura provenienza paterna, appartiene al gruppo scozzese, irlandese e gallese, cioè celtico.
Dal momento che da secoli non abbiamo alcuna relazione endogamica con quelle popolazioni, deve trattarsi per forza del gruppo ancestrale.
Ora, quando vennero i celti in Sicilia? Chiunque abbia letto il de rebus gestis comitis Rogerii et fratris eius Roberti, ducis Apuliae et Calabriae, di Goffredo Malaterra, il cronista della spedizione normanna, lo sa benissimo. Scesero in Sicilia coi Normanni provenienti dalla Bretagna, regione confinante con la Normandia, nella quale s'erano rifugiati i Britanni al tempo dell'invasione sassone dell'Inghilterra, dandole il nome.
Goffredo, infatti, racconta, per esempio, del britanno Viscardo, che salvò la vita al gran conte, caduto in un agguato, a prezzo della sua, cui Ruggero tributò solenni esequie, ma, anche di Serlone, fratello degli Hauteville, che, per sfuggire al duca di Normandia, s'era rifugiato in Bretagna e da lì venne in Sicilia con molti bretoni.
Perciò i miei furono certamente fra quelli che strapparono il Monte ai mori e che, nel 1260, promossero l'eliminazione del vicario generale del regno, conte Federico Maletta, zio dell'usurpatore Manfredi, avvenuta proprio fuori la città di Monte San Giuliano, poi espugnata dal re, molto probabilmente col concorso di almeno una parte della colonia genovese presente al Monte.
Per cancellare la memoria della città indipendente e insofferente del dominio degli Staufen, che avevano sterminato i normanni, la regia curia elaborò un falso privilegio fridericiano e ripopolò il Monte con genti provenienti da tutto il regno.
Ma questo sarà oggetto di un mio prossimo saggio.
Qui concludo dicendo che la storia, in quanto letteratura consiste in una narrazione consolatoria, che attenua l'angoscia della finitudine, in quanto disciplina è indagine, ma l'indagine richiede non solo la ricerca dei documenti, ma soprattutto la loro ricostruzione in un coerente quadro sistematico, accompagnata dall'acume necessario per una credibile interpretazione logica.
In assenza delle qualità indispensabili, chi si occupa del passato, è destinato solo a invischiare incauti lettori nella sua personale confusione.
Paceco, 18 giugno 2022
Stefano Fontana