C’è qualcosa di inquietante in questo nuovo presidente della Regione che abbiamo in Sicilia, Renato Schifani. E non è questo odore di minestrina che si porta dietro, minestrina riscaldata, piatto che conosciamo molto bene, in Sicilia, ricetta consumatissima dalla politica nostrana. Non è neanche la posa da statua di cera, la sensazione di avere a che fare con qualcuno che è l’esatto opposto di quello di cui avremmo bisogno. Gente dinamica, al passo con i tempi, capace di lavorare sulla complessità del presente.
Schifani, non me ne voglia, ha invece l’aria di uno che appartiene al passato, a divani imbottiti, tende damascate, ad altri riti, e, a proposito di divani, sembra appartenere a quell’età in cui non ci alza dalla poltrona senza un oplà di compiacimento.
C’è qualcosa di inquietante, a proposito di Schifani. E non è neanche la vertigine rivelatrice che ho avvertito il pomeriggio dello spoglio delle schede per le elezioni regionali, mentre guardavo la sua prima conferenza stampa da nuovo presidente della Regione Sicilia. E mi arrivavano tanti messaggi, dai seggi, di gente che voleva sapere chi era stato eletto dalle nostre parti, all’ambitissima carica di deputato regionale, e in particolare cosa aveva fatto la Dc, che aveva una lista definita dagli addetti ai lavori fortissima.
È stato in quel momento che ho pensato alla sigla Dc, al suo mentore, Totò Cuffaro, e a Schifani presidente (che stava proprio ringraziando Cuffaro…) e ho avvertito una specie di disorientamento.
Sono prigioniero degli anni ’90, mi sono detto. Questo non è il 2022, è ancora il 1992, forse il 1994. Siamo prigionieri della nostra storia, che incubo. Ma mi sono ripreso subito, perché poi ci ho riflettuto meglio, e noi siciliani mica siamo prigionieri della nostra storia.
È esattamente l’opposto. Siamo noi ad aver fatto prigioniera la storia. Perché ha ragione Totò Cuffaro, quando per festeggiare il 7% del suo partito, la Dc, dice: «Non è colpa mia se la gente vota Dc e Cuffaro. Vuol dire che c’è bisogno di noi». È proprio così. Perché facciamo prigioniera la storia. Abbiamo «bisogno» di Cuffaro. Ed è lo stesso meccanismo con il quale invadiamo con le vittime di mafia la toponomastica delle nostre malandate città, delle strade che crollano, delle scuole che chiudono.
Facciamo prigioniera la storia. E un giorno avremo un Borbone presidente della Regione, me lo sento.
Ma non è neanche questo che mi inquieta. È un’altra cosa. Ed è accaduta sempre durante quella conferenza stampa, la prima, di Schifani. Che ha detto quella cosa che si dice sempre sul Ponte sullo Stretto. E ci sta. E poi a un certo punto si è giocato il jolly, che è quello che si giocano tutti i neoeletti in Sicilia: la lotta alla mafia e la legalità. Anche quello è un tema trito e ritrito. Chi viene eletto fa grandi proclami, come se venisse ad amministrare il Far West dei barbari.
Ma Schifani ha detto una cosa, questa cosa qui, su mafia e legalità. Ha avuto un’idea, un’ideona. Testuale: «Istituirò un comitato ristrettissimo di vigilanza composto da ex magistrati ed ex alti componenti delle Forze dell’ordine contro le infiltrazioni della mafia nel Pnrr e vigilare sulla legalità». Aggiunge anche «possibilmente non siciliani, estranei al nostro territorio».
Ecco, perché Schifani mi inquieta. Più dell’odore di minestrina, più del tempo prigioniero, più di ogni altra cosa. Questa idea, l’unica idea, che ha sul contrasto alla mafia, e che consiste nel creare l’ennesimo comitato di «garanti», «esperti», che non devono essere siciliani, per carità, e che hanno il compito di vigilare sulle infiltrazioni della mafia. È la sola idea, ed è molto pericolosa. Perché è quello che abbiamo fatto in tutti questi anni.
E, ancora una volta, le celebrazioni dei trentennali e dei quarantennali non servono a nulla, se ripetiamo gli stessi errori. Affidarci ai saggi che vengono fuori, magari «magistrati», unici interpreti del diritto, perché no, e non siciliani, oppure generali in pensione dei Carabinieri, e chiedere loro, ancora una volta, di fare quello che la politica non fa, e non vuole fare: avere responsabilità. Così, se poi la mafia arriva davvero a mettere le mani sul Pnrr, non siamo tenuti ad occuparcene, tanto c’è il comitatone di esperti, no?
È inquietante questa cosa perché poi ripete il nuovo brand dell’antimafia di parata, «mafia & Pnrr», come se la mafia partecipasse ai bandi del piano, ci si infilasse con le mani e i piedi. Non fa danno la mafia ai siciliani, oggi. Quella che conosciamo controlla solo gli spiccioli di un gioco grande che non arriva a capire (e dove si agitano altri fenomeni criminali, quella che io chiamo «Cosa Grigia»).
Il vero danno lo fa la politica, la cattiva politica. La Sicilia è la Regione che sta usufruendo più di tutti dei soldi del Pnrr, dati alla mano. Ma il problema non è il quanto. E il come. Nel mio Comune, ad esempio, Marsala, il Sindaco non ha presentato nessuna proposta per costruire asili nido. In compenso con i soldi del Pnrr vuole realizzare un faraonico ippodromo da due milioni e mezzo di euro.
È sulla qualità della politica che si gioca il presente dell’Isola, come dappertutto, da noi un po’ di più perché abbiamo da recuperare anni di inefficienze e promesse a vuoto. E la lotta alla mafia la si fa creando sviluppo, non comitati. O investendo sul digitale (un funzionario qualche giorno fa mi dice: «Lo sa perché i politici odiano tutti i processi di digitalizzazione della pubblica amministrazione? Perché così non ci sono più clientele…»).
Ma Schifani ha avuto questa idea. E poi un oplà di compiacimento.
Giacomo Di Girolamo (articolo apparso su Linkiesta, qui il link)