Ragion di Stato e Realpolitik. Sono questi i due approcci che hanno guidato la gestione dell’arresto di Almasri, comandante della polizia giudiziaria libica e direttore della prigione Mitiga a Tripoli, dove vengono detenuti i migranti. Almasri è accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, tanto che la Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso un mandato di cattura nei suoi confronti.
Il 19 gennaio, su segnalazione dell’Interpol, la Digos lo arresta a Torino. Dopo 48 ore, il 21 gennaio, la Procura Generale della Corte d’Appello di Roma non chiede la convalida dell’arresto, motivando la decisione con quanto previsto dalla legge 237 del 2012, "Norme per l'adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte Penale Internazionale". Secondo questa normativa, il provvedimento è di competenza esclusiva del Ministro della Giustizia, che deve eseguirlo e consegnare il soggetto incriminato alla CPI, a meno che tale atto non comprometta la sicurezza nazionale.
Il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, riferendo al Senato, ha dichiarato che "la questura di Torino, dopo il fermo, ha avvisato la Procura della capitale e il competente dipartimento ministeriale della giustizia". Tuttavia, il Procuratore Generale di Roma, che aveva ricevuto il fascicolo da Torino, ha rilevato "l’irritualità" dell’arresto in assenza di una richiesta formale del Ministero. Per questo motivo, il 20 gennaio ha scritto al Ministro Nordio, chiedendo se intendesse proporre l’esecuzione del mandato della CPI. Il ministro, però, non ha risposto.
Nel frattempo, Almasri è stato espulso e rimpatriato a Tripoli con un volo di Stato. Il ministro Piantedosi ha giustificato la decisione definendolo "un uomo pericoloso". Certo, un personaggio di rilievo in Libia, ma a Torino ha trovato anche il tempo di assistere a Juve-Milan: una presenza davvero "pericolosa".
Anche le scolaresche di prima elementare che venerdì scorso hanno visitato Palazzo VII Aprile avrebbero capito che si è trattato di una scelta politica: non consegnarlo alla CPI per preservare i rapporti con la Libia, cruciali per contenere il fenomeno migratorio e tutelare gli interessi economici nazionali, come quelli legati all’ENI. Di fatto, il governo, che si dichiara pronto a perseguire i criminali responsabili delle sofferenze dei migranti, ha catturato uno di loro per poi rimandarlo a Tripoli.
Una riflessione storica
Il sacrificio dei migranti provenienti dall’Africa, a favore del nostro benessere, non è cosa recente. Parte da un quarto di secolo fa, con Berlusconi che stringeva accordi con Gheddafi, blindando la frontiera. Dopo la morte del dittatore libico, si è aperta una falla che è stata in parte tamponata dal memorandum sull’immigrazione firmato con la Guardia Costiera libica da Marco Minniti (PD). Questo percorso è stato poi proseguito da Salvini, Lamorgese e ora Piantedosi.
Cosa aggiungere? "Il fine giustifica i mezzi". Tutto molto machiavellico. Ragion di Stato e Realpolitik. Basta dirlo.
Vittorio Alfieri