Nella recente audizione pubblica della Commissione parlamentare Antimafia, il tenente colonnello Carmelo Canale, storico collaboratore del giudice Paolo Borsellino, ha fornito nuove testimonianze su mafia, appalti e il clima di isolamento che il magistrato stava vivendo nei giorni precedenti alla sua uccisione.
Le sue parole hanno gettato nuova luce su aspetti fondamentali della vicenda, in particolare su due punti cruciali: Il dossier mafia-appalti, un’inchiesta che Borsellino stava seguendo con particolare attenzione e che potrebbe essere stata una delle cause della sua eliminazione. La misteriosa scomparsa dell’agenda rossa, il taccuino su cui il giudice annotava informazioni sensibili, e che nessuno – secondo Canale – ha mai realmente cercato.
Dalle dichiarazioni di Canale emerge un quadro allarmante: Borsellino era sempre più isolato e diffidente nei confronti di alcuni magistrati, tanto da non sentirsi più sicuro neanche all'interno della stessa Procura di Palermo. Le sue indagini, inoltre, si stavano avvicinando a un intreccio pericoloso tra mafia, politica e affari, che avrebbe potuto scatenare una reazione feroce da parte di Cosa Nostra e di chi aveva interesse a mantenere lo status quo.
L’agenda rossa: "nessuno si preoccupò di cercarla"
Uno degli aspetti più controversi legati alla strage di via D’Amelio riguarda la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, il taccuino che il magistrato portava sempre con sé e nel quale annotava riflessioni, appunti sulle indagini e probabilmente dettagli fondamentali sugli sviluppi del dossier mafia-appalti.
Secondo quanto dichiarato da Canale alla Commissione Antimafia, nessuno, all’indomani della strage, si preoccupò realmente di cercare l’agenda. Questo particolare lascia aperti numerosi interrogativi su un possibile insabbiamento. «Nessuno ha mai cercato quell'agenda. Se ne sono fregati tutti. Non si salva nessuno», ha affermato con forza Canale davanti ai parlamentari.
È ormai accertato che subito dopo l’esplosione in via D’Amelio, la borsa di Paolo Borsellino, contenente documenti e il suo cellulare ancora perfettamente funzionante, venne ritrovata accanto ai resti dell’auto dilaniata dall’esplosione. Tuttavia, quando la borsa fu consegnata alla moglie Agnese, l’agenda rossa non era più al suo interno.
Qui l'audizione completa del tenente colonnello Carmelo Canale
Le ipotesi sulla sparizione sono numerose, ma tutte puntano nella stessa direzione: qualcuno, nei momenti immediatamente successivi all’attentato, avrebbe sottratto il taccuino per farlo sparire definitivamente. Alcune immagini video mostrano un ufficiale dei Carabinieri prendere la borsa di Borsellino dalla macchina distrutta: il sospetto è che sia stato proprio in quel frangente che l’agenda sia stata prelevata.
Il fatto che nessuno abbia mai fatto un’indagine seria su questo punto, per Canale, è un segnale chiaro di una verità scomoda che si è cercato di insabbiare. Se davvero in quell’agenda c’erano informazioni cruciali sulle indagini di Borsellino, chi l’ha fatta sparire potrebbe aver agito per conto di poteri forti, temendo che quei documenti potessero compromettere figure influenti nel mondo politico e imprenditoriale.
L’isolamento di Borsellino e la sua sfiducia verso alcuni magistrati
Un altro aspetto inquietante emerso dall’audizione riguarda il clima di diffidenza che Paolo Borsellino viveva all’interno della Procura di Palermo. Carmelo Canale ha raccontato che il giudice, negli ultimi mesi della sua vita, aveva smesso di fidarsi di alcuni suoi colleghi magistrati e si sentiva di fatto isolato.
In particolare, Borsellino aveva forti riserve nei confronti del procuratore capo Pietro Giammanco, che aveva preso il posto di Giovanni Falcone a Palermo. Secondo quanto dichiarato da Canale, Giammanco ostacolava in ogni modo il lavoro di Borsellino, impedendogli di accedere a documenti importanti e rallentando le sue indagini.
Un episodio emblematico riguarda il soprannome che il giudice aveva dato a due magistrati della procura, Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, chiamandoli "Il Gatto e la Volpe". Questo dettaglio, se confermato, sarebbe la prova definitiva della profonda diffidenza che Borsellino nutriva nei confronti di alcuni ambienti giudiziari, dove temeva potessero annidarsi complicità e connivenze con poteri forti.
Il colonnello Canale ha raccontato anche di un’altra frustrazione del giudice: Borsellino non riusciva ad accedere al dossier su mafia e appalti, un’indagine che aveva seguito con grande interesse e che potrebbe aver rappresentato il vero movente della sua uccisione.
Il dossier mafia-appalti: la pista che potrebbe spiegare la strage
Uno degli elementi più importanti emersi dall’audizione è il ruolo centrale che il dossier mafia-appalti avrebbe avuto nelle indagini di Borsellino. Questo fascicolo, inizialmente redatto dai carabinieri del ROS su impulso di Giovanni Falcone, era stato consegnato a Borsellino nel 1991, quando il magistrato era in servizio a Marsala.
Il dossier conteneva informazioni scottanti su come Cosa Nostra fosse riuscita a infiltrarsi negli appalti pubblici, gestendo miliardi di lire attraverso prestanome e società di copertura. In particolare, Borsellino stava indagando sugli appalti pubblici a Pantelleria, dove erano coinvolti imprenditori mafiosi come Angelo Siino e Rosario Cascio. Secondo Canale, Borsellino era intenzionato a proseguire questa indagine, ma venne rallentato da una serie di ostacoli burocratici e pressioni dall’alto. Un fatto che rafforza il sospetto che il giudice sia stato eliminato proprio per evitare che emergessero verità scomode.
Depistaggi e insabbiamenti: il caso Scarantino
Non meno rilevante è la questione del depistaggio sulle indagini della strage di via D’Amelio, orchestrato attraverso le false dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino. Canale ha affermato che già all’epoca era evidente che Scarantino non fosse credibile, eppure le autorità giudiziarie decisero di puntare su di lui, costruendo un’intera inchiesta su false confessioni.
L’uso di Scarantino come "finto colpevole" fece perdere anni preziosi, allontanando le indagini dai veri responsabili e contribuendo a seppellire la verità sulla morte di Borsellino. Questo depistaggio, ormai accertato, è la prova definitiva che ci furono forze interne ed esterne allo Stato che lavorarono per impedire che emergessero i veri mandanti della strage.
Dopo più di trent’anni dalla strage di via D’Amelio, le dichiarazioni di Canale aprono nuovi interrogativi inquietanti. Chi ha voluto insabbiare il lavoro di Borsellino? Perché nessuno ha cercato la sua agenda rossa? E soprattutto, quanto era vicino il magistrato a scoprire i legami tra mafia, politica e affari prima di essere ucciso?
Oggi più che mai, il sacrificio di Borsellino chiede verità e giustizia.