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13/01/2011 10:26:11

Un dialogo possibile e necessario

Contrariamente a queste affermazioni, la fede cristiana ufficiale continua a presentarsi come lo schieramento di coloro  che hanno una risposta pronta per ogni domanda, ancora prima che cominci il dialogo, per cui oggi, nel tempo in cui  sarebbe sommamente utile, manca un vero dialogo con chi non crede o non si pronuncia su Dio. Non solo, ma i  cosiddetti «senza Dio», cioè gli atei e gli agnostici,vengono da più parti dipinti a tinte scure, sostenendo che non  possono, per principio, predicare e praticare nulla di veramente buono, e che la loro etica è inevitabilmente di qualità  inferiore a quella dei credenti. E si conclude affermando che occorre diffidare di loro e contrastare le loro istanze laiche  nella società civile. I fatti però smentiscono questa visione delle cose. Fede in Dio e moralità non vanno  necessariamente di pari passo e non basta essere credenti per essere persone migliori, spiritualmente e moralmente. Magari fosse così! Staremmo certo tutti meglio, vista l’altissima percentuale di credenti nel mondo (ben i cinque sesti  della popolazione). Purtroppo dobbiamo constatare che la Chiesa non ha migliorato gran che il mondo in cui pure per  tanti secoli ha svolto una funzione egemone e che anche nel nostro tempo i cristiani non eccellono in virtù come sarebbe  lecito aspettarsi. Michele Turrisi – Latisana (Ud)  
 

Le domande (implicite) in questa lettera sono due. La prima riguarda il dialogo tra fede e incredulità; la seconda  riguarda la moralità dei credenti rispetto a quella dei non credenti: se sia migliore oppure no. Sono due domande alle quali non è facile rispondere, ma sono importanti, ed è bene affrontarle. Il nostro lettore osserva, giustamente, che in fondo un vero dialogo tra fede e incredulità non c’è, o è molto raro, anche perché la fede ritiene, in generale (ci sono  eccezioni, ma sono, appunto, eccezioni), di «avere una risposta pronta per ogni domanda », prima ancora che questa  venga formulata. Così può accadere che la fede, o la teologia, o la Chiesa rispondano a domande immaginarie che  nessuno pone e non rispondano alle domande vere che invece sono poste e restano inevase. Va però detto che il dialogo tra fede e incredulità non è facile per almeno due motivi. Il primo è che l’incredulità ha molte facce e ciascuna di  queste esige un dialogo diverso. C’è, come è noto, una faccia religiosa dell’incredulità, contro cui Gesù ha molto combattuto: la chiama «ipocrisia». C’è un’altra faccia dell’incredulità, che è quella del Grande Inquisitore, che rimprovera Gesù per non aver ceduto alle tre proposte dello «Spirito intelligente del deserto» (le cosiddette «tentazioni ») e aver così creato una religione fallimentare, che la Chiesa ha poi opportunamente corretto, mettendo in pratica  proprio quelle tre proposte: dialogare con questo tipo di incredulità significa dialogare, se così posso dire, con il  diavolo. C’è poi un’incredulità di altra natura, molto vicina alla fede, quasi la sua ombra: dialogare con questa forma di  incredulità significa, per il credente, dialogare con se stesso e con Dio. Ma c’è naturalmente anche l’incredulità nel  senso abituale del termine: la negazione pura e semplice di Dio, molto frequente nel nostro tempo come in tutta la  modernità, quasi un suo distintivo. Una recente testimonianza di pochi giorni fa l’ha resa un eminente scienziato – un  fisico di fama mondiale, prossimo candidato, si dice, al premio Nobel – il quale ha dichiarato con molta tranquillità: «Per me Dio non è neppure un’ipotesi». È chiaro che se Dio non è neppure un’ipotesi, il dialogo con la fede non è facile.  Certo, si potrebbe cominciare a chiedere a questo interlocutore perché, per lui, Dio non è neppure un’ipotesi. Ma  l’impressione è che il dialogo, più che difficile, sia indesiderato. Come se fosse una perdita di tempo.

C’è però una  seconda ragione della difficoltà del dialogo tra fede e incredulità: è che la storia dei loro rapporti è stata finora una  storia abbastanza infelice. Durante molti secoli infatti la fede, o meglio la Chiesa che in quel momento storico le dava  corpo, ha represso duramente l’incredulità o l’ateismo, punendolo anche con la pena capitale. Ancora nel Cinquecento  la negazione della Trinità era considerata una forma di ateismo e perseguita con la morte o l’esilio. La fede non  tollerava l’ateismo. Persino John Locke, nella sua celebre e, per quel tempo, e per molti aspetti anche per il nostro,  eccellente Lettera sulla tolleranza (1689) negava agli atei (e ai cattolici) il diritto di far parte della comunità civile.  Quando poi, a partire dal Rinascimento, ma soprattutto dal Seicento in avanti, la cultura si è emancipata dalla Chiesa e  dalla visione religiosa del mondo, essa si è in vari modi pronunciata negativamente sulla fede identificandola con la  superstizione, e ha interpretato la religione o come fase infantile nella storia dell’umanità, che l’«uomo adulto» non può  fare altro che abbandonare oppure come una forza alienante che nella società produce strutture e mentalità  conservatrici per non dire reazionarie, e negli individui genera illusioni e inibizioni che ostacolano il libero sviluppo della  persona. Così da un lato la fede mantiene il suo pregiudizio negativo nei confronti dell’ateismo e dell’agnosticismo  giudicandoli nocivi per l’uomo, e dall’altro l’incredulità mantiene il suo giudizio negativo sulla religione giudicandola una  forma di infantilismo culturale. Parafrasando una parola evangelica potremmo dire che il credente si chiede: «Può forse  venir qualcosa di buono dall’ateismo?» (Giovanni 1, 46), e l’ateo si chiede: «Può forse venir qualcosa di buono dalla  religione?». In queste condizioni il dialogo è effettivamente difficile.

Ma non è impossibile. Per avviarlo in modo  costruttivo occorre ovviamente, in primo luogo, abbandonare ogni presunzione di superiorità della fede sull’incredulità  (senza peraltro cadere nel complesso opposto di inferiorità della prima nei confronti della seconda, quasi che la fede  fosse una debolezza o menomazione dello spirito). In secondo luogo occorre superare l’idea che associa e quasi  imprigiona Dio nello spazio religioso del sacro, mentre Dio è aldilà della polarità sacro-profano, quindi è libero e   presente tanto nella dimensione laica della vita, personale e collettiva, quanto in quella religiosa, e forse più nella prima  che nella seconda. In terzo luogo è indispensabile che fede e incredulità si prendano reciprocamente molto sul serio,  cercando ciascuna anzitutto di capire le ragioni dell’altra. Così ha fatto Dietrich Bonhoeffer nelle sue Lettere dal carcere,  el suo programma (appena abbozzato) di «cristianesimo non religioso», e nella sua poesia «Cristiani e  pagani». In Italia oggi, tra i cristiani, c’è mons. Gianfranco Ravasi che cerca di avviare questo dialogo. È significativo  che un suo volume intitolato Preghiere (Mondadori 2000) rechi come sottotitolo «L’ateo e il credente davanti a Dio», e  si apra con un capitolo dedicato «Al Dio ignoto»: la preghiera dell’ateo. Leggendolo ci si accorge subito che Ravasi  non si propone di addomesticare l’ateo inducendolo a pregare, ma vuole semplicemente ascoltare, prima di ogni altra,  la sua voce, talvolta più autentica di quella di credenti che a Dio non sanno dire altro che pie banalità. A riprova Ravasi  cita in apertura il grande poeta tragico greco Eschilo: «Io grido in alto le mie infinite sofferenze: dal profondo dell’ombra  chi mi ascolterà?».

La risposta al secondo interrogativo può essere molto breve per il semplice motivo che non la posso  dare. Solo Dio conosce i cuori e solo lui sa dove c’è moralità e dove invece c’è apparenza di moralità. E  comunque è sempre antipatico redigere classifiche, soprattutto di questo genere. Comunque non sembra, in generale,  che ci sia molta più moralità nella Chiesa che fuori – lo dico a nostra vergogna, di noi che osiamo chiamarci cristiani.  Una cosa è certa, l’ha detta Gesù: «A chi molto è stato dato, molto sarà ridomandato, e a chi molto è stato affidato,  tanto più si richiederà» (Luca 12, 48): Ai cristiani è stato indubbiamente dato e affidato molto. Perciò l’apostolo Paolo li  esorta a dedicarsi alla loro salvezza «con timore e tremore » (Filippesi 2, 12) 

Paolo Ricca - da 'Riforma' del 14 gennaio 2011 - www.chiesavaldesetrapani.com

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