Le domande (implicite) in questa lettera sono due. La prima riguarda il dialogo tra fede e incredulità; la seconda riguarda la moralità dei credenti rispetto a quella dei non credenti: se sia migliore oppure no. Sono due domande alle quali non è facile rispondere, ma sono importanti, ed è bene affrontarle. Il nostro lettore osserva, giustamente, che in fondo un vero dialogo tra fede e incredulità non c’è, o è molto raro, anche perché la fede ritiene, in generale (ci sono eccezioni, ma sono, appunto, eccezioni), di «avere una risposta pronta per ogni domanda », prima ancora che questa venga formulata. Così può accadere che la fede, o la teologia, o la Chiesa rispondano a domande immaginarie che nessuno pone e non rispondano alle domande vere che invece sono poste e restano inevase. Va però detto che il dialogo tra fede e incredulità non è facile per almeno due motivi. Il primo è che l’incredulità ha molte facce e ciascuna di queste esige un dialogo diverso. C’è, come è noto, una faccia religiosa dell’incredulità, contro cui Gesù ha molto combattuto: la chiama «ipocrisia». C’è un’altra faccia dell’incredulità, che è quella del Grande Inquisitore, che rimprovera Gesù per non aver ceduto alle tre proposte dello «Spirito intelligente del deserto» (le cosiddette «tentazioni ») e aver così creato una religione fallimentare, che la Chiesa ha poi opportunamente corretto, mettendo in pratica proprio quelle tre proposte: dialogare con questo tipo di incredulità significa dialogare, se così posso dire, con il diavolo. C’è poi un’incredulità di altra natura, molto vicina alla fede, quasi la sua ombra: dialogare con questa forma di incredulità significa, per il credente, dialogare con se stesso e con Dio. Ma c’è naturalmente anche l’incredulità nel senso abituale del termine: la negazione pura e semplice di Dio, molto frequente nel nostro tempo come in tutta la modernità, quasi un suo distintivo. Una recente testimonianza di pochi giorni fa l’ha resa un eminente scienziato – un fisico di fama mondiale, prossimo candidato, si dice, al premio Nobel – il quale ha dichiarato con molta tranquillità: «Per me Dio non è neppure un’ipotesi». È chiaro che se Dio non è neppure un’ipotesi, il dialogo con la fede non è facile. Certo, si potrebbe cominciare a chiedere a questo interlocutore perché, per lui, Dio non è neppure un’ipotesi. Ma l’impressione è che il dialogo, più che difficile, sia indesiderato. Come se fosse una perdita di tempo.
C’è però una seconda ragione della difficoltà del dialogo tra fede e incredulità: è che la storia dei loro rapporti è stata finora una storia abbastanza infelice. Durante molti secoli infatti la fede, o meglio la Chiesa che in quel momento storico le dava corpo, ha represso duramente l’incredulità o l’ateismo, punendolo anche con la pena capitale. Ancora nel Cinquecento la negazione della Trinità era considerata una forma di ateismo e perseguita con la morte o l’esilio. La fede non tollerava l’ateismo. Persino John Locke, nella sua celebre e, per quel tempo, e per molti aspetti anche per il nostro, eccellente Lettera sulla tolleranza (1689) negava agli atei (e ai cattolici) il diritto di far parte della comunità civile. Quando poi, a partire dal Rinascimento, ma soprattutto dal Seicento in avanti, la cultura si è emancipata dalla Chiesa e dalla visione religiosa del mondo, essa si è in vari modi pronunciata negativamente sulla fede identificandola con la superstizione, e ha interpretato la religione o come fase infantile nella storia dell’umanità, che l’«uomo adulto» non può fare altro che abbandonare oppure come una forza alienante che nella società produce strutture e mentalità conservatrici per non dire reazionarie, e negli individui genera illusioni e inibizioni che ostacolano il libero sviluppo della persona. Così da un lato la fede mantiene il suo pregiudizio negativo nei confronti dell’ateismo e dell’agnosticismo giudicandoli nocivi per l’uomo, e dall’altro l’incredulità mantiene il suo giudizio negativo sulla religione giudicandola una forma di infantilismo culturale. Parafrasando una parola evangelica potremmo dire che il credente si chiede: «Può forse venir qualcosa di buono dall’ateismo?» (Giovanni 1, 46), e l’ateo si chiede: «Può forse venir qualcosa di buono dalla religione?». In queste condizioni il dialogo è effettivamente difficile.
Ma non è impossibile. Per avviarlo in modo costruttivo occorre ovviamente, in primo luogo, abbandonare ogni presunzione di superiorità della fede sull’incredulità (senza peraltro cadere nel complesso opposto di inferiorità della prima nei confronti della seconda, quasi che la fede fosse una debolezza o menomazione dello spirito). In secondo luogo occorre superare l’idea che associa e quasi imprigiona Dio nello spazio religioso del sacro, mentre Dio è aldilà della polarità sacro-profano, quindi è libero e presente tanto nella dimensione laica della vita, personale e collettiva, quanto in quella religiosa, e forse più nella prima che nella seconda. In terzo luogo è indispensabile che fede e incredulità si prendano reciprocamente molto sul serio, cercando ciascuna anzitutto di capire le ragioni dell’altra. Così ha fatto Dietrich Bonhoeffer nelle sue Lettere dal carcere, el suo programma (appena abbozzato) di «cristianesimo non religioso», e nella sua poesia «Cristiani e pagani». In Italia oggi, tra i cristiani, c’è mons. Gianfranco Ravasi che cerca di avviare questo dialogo. È significativo che un suo volume intitolato Preghiere (Mondadori 2000) rechi come sottotitolo «L’ateo e il credente davanti a Dio», e si apra con un capitolo dedicato «Al Dio ignoto»: la preghiera dell’ateo. Leggendolo ci si accorge subito che Ravasi non si propone di addomesticare l’ateo inducendolo a pregare, ma vuole semplicemente ascoltare, prima di ogni altra, la sua voce, talvolta più autentica di quella di credenti che a Dio non sanno dire altro che pie banalità. A riprova Ravasi cita in apertura il grande poeta tragico greco Eschilo: «Io grido in alto le mie infinite sofferenze: dal profondo dell’ombra chi mi ascolterà?».
La risposta al secondo interrogativo può essere molto breve per il semplice motivo che non la posso dare. Solo Dio conosce i cuori e solo lui sa dove c’è moralità e dove invece c’è apparenza di moralità. E comunque è sempre antipatico redigere classifiche, soprattutto di questo genere. Comunque non sembra, in generale, che ci sia molta più moralità nella Chiesa che fuori – lo dico a nostra vergogna, di noi che osiamo chiamarci cristiani. Una cosa è certa, l’ha detta Gesù: «A chi molto è stato dato, molto sarà ridomandato, e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà» (Luca 12, 48): Ai cristiani è stato indubbiamente dato e affidato molto. Perciò l’apostolo Paolo li esorta a dedicarsi alla loro salvezza «con timore e tremore » (Filippesi 2, 12)
Paolo Ricca - da 'Riforma' del 14 gennaio 2011 - www.chiesavaldesetrapani.com