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17/01/2011 15:42:46

Come si rivela Dio

La preghiera di Mosè, dunque, è anche la nostra: il suo bisogno dà voce al grido di tutte e tutti noi, alla richiesta che affiora inevitabilmente in ogni percorso di fede che, come tale, ci chiama ad attraversare momenti di crisi. E Dio, che non è sordo alle nostre preghiere, risponde. Lo fa, però -come sempre, del resto-, «a modo suo». In primo luogo chiede a Mosè di «stargli di fronte»: posizione che di per sé, già, testimonia della volontà di Dio di intessere, con noi, una relazione aperta, da pari a pari: da amanti, che, appunto, stanno l’uno dinanzi all’altro; non da sudditi. Mosè e noi con lui, non siamo chiamate e chiamati alla sottomissione, né col gesto, né con la disposizione d’animo: siamo invece invitati da Dio al rapporto franco, che va vissuto a testa alta, a viso aperto. Perché è la relazione che sta cuore a Dio, non la subordinazione e nemmeno l’adorazione: ed è nella relazione soltanto che può maturare un’obbedienza sincera, fondata sull’amore e sull’intimo convincimento, mai sul timore e sulla coercizione. Dio ci chiede un’obbedienza libera, figlia del donarsi a Lui, a Lei, con quella fiducia che non nasce dalla paura, ma dalla conoscenza di chi ci sta di fronte e ci chiama, costantemente, alla relazione con Sé. In questa relazione Dio manifesta anche premura nei confronti di Mosè, poiché mostra di volerlo mettere al riparo in un luogo sicuro, poggiandogli delicatamente la mano a protezione degli occhi. L’intenzione di Dio, però, non è in alcun modo paternalistica: il suo scopo è, piuttosto, quello di proteggere la relazione. Da che cosa? Dal pericolo più grande e meno facile da avvertire: quello dell’evidenza. Quella relazione speciale con Dio a cui diamo il nome di fede, infatti, non è messa a repentaglio da nient’altro come dalla presunzione dell’evidenza. Dio questo lo sa bene e decide, pertanto, di agire di conseguenza. Chiarisce immediatamente a Mosè che Egli si darà a vedere, potremmo dire, «soltanto a metà»: in un certo qual modo, infatti, Dio accetta di rivelarsi ma rifiuta di farlo nel modo in cui Mosè si aspetta che lo faccia. Una volta ancora, quindi, Dio risponde, sì, ma a modo Suo: che è sempre un modo che intende spingerci oltre, spostare in avanti i confini ristretti della nostra capacità di comprendere. Dio, infatti, si mostrerà a Mosè, ma non gli permetterà di vedere il Suo volto: se ciò avvenisse, infatti, il rischio sarebbe quello della piena identificazione, del poter affermare: «Dio è così come l’ho visto»; che poi vuol dire: «Dio è così come lo vedo». Assegnare a Dio un volto ed uno solo significa non aver più bisogno di andarne in cerca, di imparare, ogni giorno di nuovo, a riconoscerlo di nuovo là dove Egli si rivela. E ri-velarsi non è svelarsi: non significa «togliere il velo», ma indossarne un altro. Dio, decidendo di ri-velarsi anziché di svelarsi nella Sua relazione con noi, intende invitarci ad andare al di là delle apparenze e, più ancora, contro quell’evidenza che Egli ama contraddire. Non mostrando a Mosè il Proprio volto, Dio evita che egli possa farsi un’immagine di Lui, di Lei, con la quale, poi, identificarlo senza riserve: gli impedisce di assecondare la tentazione, sempre in agguato, dell’idolatria, che, letteralmente, significa proprio «adorare un’immagine»; che non è, soltanto, l’immagine scolpita, resa manufatto; ma anche, e più ancora,  l’idea (parola che, proprio come idolo, proviene dalla stessa radice eidon,  «immagine», per l’appunto) che ci siamo fatta di Dio e che, spesso, non intendiamo modificare. Il rischio da cui Dio vuole trarci fuori è quello dell’immobilità, del radicamento in una visione e in una fede statiche, immutabili. Ecco perché, alla fine, Dio decide di mostrarsi a Mosè soltanto «di spalle»: ma, come sempre avviene, questo modo particolarissimo di darsi a vedere continuando a nascondersi, è un invito a ricorrere alla nostra fantasia. La creatività, infatti, è il cuore di una fede viva: e la predicazione è chiamata a sollecitarla, non a reprimerla. Il pensiero e la sensibilità ebraica ce lo insegnano attraverso l’estrema libertà che è concessa all’interpretazione delle Scritture e che rappresenta l’invito costante a servirci della nostra immaginazione, che è quanto di più prezioso, perché più personale, possediamo e che assume valore soltanto nella misura in cui le lasciamo spazio e ne facciamo dono agli altri. Riflettendo su questo rivelarsi di Dio mostrando la schiena, il mio pensiero è corso immediatamente al fatto che di Dio possiamo scorgere la presenza soltanto dopo il Suo passaggio: dall’impronta che lascia, dal profumo che impregna l’aria, come accade con la persona amata. Dio passa, e lo fa a più riprese nell’arco delle nostre vite: ma a noi è possibile scorgerlo soltanto in seguito, solamente quando, già, ci dà le spalle, sottraendosi nuovamente a quella pretesa di possesso con cui, spesso, confondiamo l’amore. L’amore, invece, è segno d’un passaggio, nostalgia provocata dall’impossibilità del raggiungimento pieno, incompletezza del conoscere che ci spinge a cercare di nuovo, a varcare altre soglie. Perché per nascere, l’amore ha bisogno della mancanza, come narra il mito raccontato da Platone: di uno spazio da lasciare vuoto, perché possa abitarlo il desiderio che ci invade e che, come Dio, non ci appartiene, perché è de-sidera: letteralmente, «dalle stelle»; immagine viva di tutto ciò che ci oltrepassa e verso cui volgiamo sguardo, sospiri, silenzi, emozioni. Dio è questo desiderio che ci abita e ci sfugge, eterna, misteriosa dinamica di ogni amore autentico. Ma, per l’appunto, pur non appartenendoci Dio decide, comunque, di abitare presso di noi, di stabilire accanto alla nostra la Sua tenda: quando, infatti, promette a Mosè di rivelarsi, gli dice subito dove lo farà: «Ecco un luogo vicino a me»; e là, lo invita a stargli di fronte. Il Dio d’Israele e Dio di Gesù è un Dio vicino, che ci chiede di scorgerlo nella prossimità che Egli crea. È un Dio che ci vuole con sé, che intende ridurre quelle distanze che, spesso, siamo noi a frapporre, dicendoci, sommessamente:

 

«Mi stai cercando? Avvicinati a Me e lascia che Io mi avvicini. Non è nella distanza incolmabile, ma nella prossimità che amo rivelarmi. Quando  stai a fianco dell’amato ti basta percepire la sua carezza, che è riflesso di quel volto che, comunque, ti sfuggirà sempre. Lasciati sfiorare e guarda più presso a te: là mi avvertirai, silenzioso, presente. E non sentirai più il bisogno, né l’ansia, di conoscere le mie sembianze: poiché lo splendore, il Mio splendore, è ciò che illumina e dà colore e forma ad ogni cosa; ma non hai modo di poterlo guardare».

   

Pastore Alessandro Esposito - Domenica 16 Gennaio 2011 - www.chiesavaldesetrapani.com