Allo stesso modo, le Scritture che, tanto Gesù, quanto i suoi seguaci leggevano e commentavano, quelle in cui ritrovavano l’annuncio del Regno come promessa e avvento di un mondo fondato su relazioni più giuste, erano le Scritture del popolo d’Israele. Riscoprire, specie in ambito ecumenico, le nostre radici ebraiche, rappresenta un cammino che la nostra fede in Gesù ci chiama a compiere, poiché si tratta di restare fedeli alle nostre origini, riscattando una storia segnata da secoli di discriminazione e di persecuzione che, come chiese, abbiamo contribuito sensibilmente e drammaticamente a determinare.
Il segno concreto di un pentimento autentico può consistere soltanto in un cammino di consapevolezza, attraverso il quale riconoscere nell’ebraismo la tradizione verso cui siamo debitori, il luogo al quale dobbiamo fare ritorno ogni giorno -come i discepoli al tempio- per comprendere più in profondità la nostra fede e la nostra vocazione cristiana.
Il secondo aspetto che vorrei accostare riguarda la complessità del rapporto tra la fede ebraico-cristiana e l’istituzione del tempio: rapporto che, fin dal tempo dei profeti, per passare poi alla vita e alla predicazione di Gesù, fu sempre controverso. La difficoltà principale risiedeva e risiede ancora oggi nel rapporto con la tradizione che, sebbene vada rispettata, non va per questo ossequiata. Un rispetto autentico, difatti, si esprime anche attraverso l’esternazione di perplessità e riserve, che non intendono in alcun modo demolire la tradizione, ma ridiscuterla ed attualizzarla. Se ciò non avviene, il rischio è che la fede si cristallizzi e si fossilizzi, perdendo quell’aspetto dinamico, di apertura alla novità e alle sensibilità personali che la rende viva e pulsante. Il riferimento alla tradizione deve sempre contemplare uno spazio per le diversità, che non minano la fede ma, al contrario, la arricchiscono, perché fanno dell’interpretazione il luogo della libertà e del dialogo lo spazio del cambiamento e della crescita. Come chiese cristiane siamo chiamate oggi come ieri, all’interno del cammino ecumenico, a sperimentare la differenza come luogo di fecondità che nasce dal confronto e che rifiuta ogni appiattimento su un’identità intesa come uniformità. Persino il dissenso critico, che è altro, anzi ciò che più si allontana da una polemica sterile, rappresenta lo spazio in cui costruire, insieme, una fede adulta e responsabile, che si nutre del dialogo.
I primi cristiani, anche se in dissenso con il tempio e la sua classe dirigente, continuarono comunque a frequentarlo, a ritenere che l’obiettivo di una fede comune non fosse quello del consenso unanime, bensì quello della comunione tra differenze di sensibilità e di pensiero: ed è proprio questa comunione nella pluralità ciò che, nel cammino ecumenico, siamo ancora oggi chiamate e chiamati a vivere e a realizzare.
Ma per concretizzare questa prospettiva -e vengo così al terzo ed ultimo aspetto- abbiamo bisogno di mettere in pratica ciò che l’evangelo ci chiama, ogni giorno, a compiere: un vero e proprio ribaltamento delle nostre logiche, attraverso cui fare di Dio il cuore delle nostre vite e del nostro annuncio e dei templi i luoghi in cui ospitarlo e non le prigioni entro cui rinchiuderlo. Le nostre chiese devono diventare, ogni giorno di più e ogni giorno di nuovo, spazi nei quali ritrovarci per poi ripartire, per recarci ed immergerci in quella realtà alla quale dobbiamo mantenere costantemente rivolto lo sguardo, poiché lì lo tiene fermo anche il Dio d’Israele, Dio di Gesù e Dio nostro. Il tempio si illumina e si scalda quando è Dio a riempirlo della Sua presenza, che la chiesa accoglie e annuncia ma non monopolizza. Perché il Dio in cui crediamo è un Dio che ci sospinge e ci incoraggia ad uscire dai nostri templi, che Egli visita, sì, ma non abita: perché l’unica dimora che può contenerlo è un cuore disposto ad imparare l’amore come accoglienza del diverso, come sguardo rinnovato, aperto alla vita e a quegli incontri che la riempiono di senso, di colore e di calore. Perché è nell’altro, fuori dai perimetri sicuri dei nostri templi, che Dio ci viene incontro e ci invita a conoscere e a riconoscere quel volto di Lui, di Lei, che senza l’altro ci rimane ignoto.