Vorrebbero tanto mietere il grano, si immaginano immersi in campagna, chinati sotto un sole caldo. Hanno invece in sorte il mare, questo mare, che è innanzitutto un campo di guerra.
Perché la pesca è una guerra, un giocarsi il ritorno a dadi. Ogni volta, ogni volta. Perché anche la vita è una guerra. E ogni ritorno è già una partenza è già un altro viaggio.
Ma cosa fanno i marinai quando insieme condividono spazi strettissimi in pescherecci malandati - che i soldi non bastano mai per le riparazioni – e si trovano a parlare lingue diverse. Nei pescherecci mazaresi ormai la maggior parte dei pescatori sono tunisini, marocchini, algerini. Spezzano il pane con i siciliani. Quando digiunano per il Ramadan si ferma anche la pesca. E non è per rispetto. E perché è normale, per i siciliani è stato da sempre normale.
Ma cosa pensano i marinai in questi giorni, quando sempre più spesso si imbattono in barconi di giovani disperati in fuga dai loro Paesi in rivolta? Non pensano i marinai, non pensano. Se si fermassero a pensare avrebbero tutto il diritto di fare finta di nulla, di continuare la pesca. Perché salvare una barca di naufraghi? Per interrompere la battuta di pesca, fare ritorno a casa, subire danneggiamenti per via delle convulse e frenetiche attività di abbordaggio, non guadagnare un quattrino e commettere – agli occhi della legge (ma che cos’è la legge, in mare?) – il reato di favoreggiamento alla clandestinità….
Che affoghino, dovrebbero dire, codice alla mano. Imparino a restare nelle loro sponde, nelle cose loro. Ognuno pensi alla pellaccia sua.
Ma il mare, anche il mare piccolo e stanco del Mediterraneo nostro, non ha confini, e non ha pensieri.
E cosa fanno i marinai con le loro facce sorprese quando incontrano un barcone di uomini con gli occhi pieni di una paura grande quanto gli abissi? Semplicemente, li raccolgono. Non pensano a San Pietro, pescatore di uomini. Ma fanno lo stesso. Caricano corpi in stiva, danno la loro acqua e le loro scorte di cibo, si straziano per quelli che non riescono a salvare, perché il barcone si capovolge, magari, e le onde inghiottono tutti con voracità insaziabile.
Ma quanto piangono i marinai quando incontrano la morte in mare. Salvano cento vite, ne perdono una e si straziano. Piangono come bambini, mischiando acqua su acqua per quei corpi senza lapide.
Poi fanno ritorno a casa. All’arrivo al porto è tutto un correre di ambulanze, coperte, divise con il catarifrangente. Ma per loro c’è solo l’indifferenza dei flash rivolti altrove, il fastidio di chi chiede conto e soddisfazione di una battuta di pesca mancata, una barca da riparare, uno Stato che non farà nulla – proprio nulla- per risarcire almeno un po’ il danno subito.
E allora cosa fanno i marinai? Riposano. Semplicemente, riposano. E poi ripartono, semplicemente ripartono. Un altro carico umano li attende. Nel viaggio li accompagna una preghiera che è vecchia come il mondo, che è di Dio come di Allah perché è innanzitutto una solidarietà tra uomini: “Anime bianche / Anime salvate / Anime venite / Anime addolorate….”.
Giacomo Di Girolamo