La prima: i valdesi restano forti nella loro differenza, che dimostrano in molti modi che possono apparire straordinari ma che per loro sono ovvi. Ne ricordo alcuni, invero esemplari, ma ne dimentico certamente altri: la democrazia interna, la presenza da tempo di pastori donne, la riflessione assai matura su temi scottanti quali l’eutanasia, il controllo delle nascite eccetera, la difesa e alla pratica del dialogo con altre chiese e religioni, compresi ovviamente i cattolici, l’uso dell’8 per mille per interventi assistenziali e sociali che non riguardano solo i valdesi.
La seconda: i valdesi sono politicamente piuttosto cauti (l’unica presenza valdese recente, poco entusiasmante e poco diversa, è quella di Paolo Ferrero a Rifondazione), pensando in primo luogo di dover difendere la loro differenza, anche se hanno avuto momenti di maggior radicalità. Penso in particolare alla Resistenza, cui hanno partecipato nelle loro Valli con decisione e abnegazione, penso all’opera del pastore Vinay, che fondò la comunità di Agape luogo d’incontro dopo la guerra tra giovani di tutta Europa e più tardi della comunità di Riesi in Sicilia, penso agli anni prima e dopo il ’68 in cui una rivista come “Gioventù evangelica” fu tra i luoghi di riflessione più vivaci e maturi, anche se tra i meno ascoltati dal movimento, e ne ricordo in particolare con estrema simpatia l’attenzione rivolta alle lotte dei giovani nell’Europa dell’Est, alle quali il movimento italiano guardava con stupido e odioso pregiudizio, perfino stalinista. A due firme ero particolarmente affezionato, di Mario Miegge, studioso fortemente impegnato sul fronte politico e sindacale, e di Giovanni Mottura, che fu molto attivo a Torino nei “Quaderni rossi” e nelle lotte operaie degli anni sessanta e poi a Napoli come fondatore del Centro di coordinamento campano assieme a Fabrizia Ramondino e Enrico Pugliese, nonché allievo di Manlio Rossi Doria e importante studioso di storia agricola. E oggi? Oggi, lo si è detto, i valdesi – la maggiore e più radicata minoranza protestante in Italia, anche se altre ve ne sono di ugualmente rigorose – sanno saggiamente prendere decisioni serie e importanti, e certamente non transigono sulle questioni di fondo che riguardano la fede e la coerenza dei comportamenti individuali, ma contano meno di quel che potrebbero nella società italiana. Molti di loro si sono lasciati forse irretire nelle abitudini delle “maggioranze” e pensano che per farsi accettare in una società cattolica e conformista, mai come oggi così prossima all’ignavia e alla cupezza del “particulare”, non sia opportuno esporsi troppo. Molti di loro si sono, di fatto, “omologati”. Conta inconsciamente in questo la memoria delle ingiustizie subite nel passato? Può darsi, ma se c’è un momento in cui i “buoni” dovrebbero esporsi di più e dare, appunto, il “buon” esempio, è proprio questo, in mezzo a un popolo frastornato, all’opportunismo di massa, all’abilità tutta “cattolica” con cui ci facciamo tutti antropologicamente maggioranza e riusciamo a mentire perfino a noi stessi accettando l’inaccettabile per interesse e per viltà. La mia modesta impressione è che potrebbero dare di più: non basta essere bravi, bisogna aiutare gli altri a diventarlo. Anche a costo di qualche scossa interna portata, perché no?, da una minoranza nella minoranza.
Goffredo Fofi - da 'L'Unità' del12 feb 2011