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21/03/2011 17:51:09

La presenza assente di Dio

Dio sembra acconsentire in parte alla richiesta di Mosè: questi non potrà vedere il suo volto, vedrà solo le sue spalle, ma al versetto19 Dio promette a Mosè di far passare davanti a lui tutto il suo splendore, mentre proclamerà il Nome del Signore (v. Esodo 34, 6-7). Apparentemente Dio soddisfa dunque solo in parte il desiderio del profeta, ma secondo la tradizione ebraica, in realtà Dio consegna qui a Mosè la visione di sé nella preghiera, quella corale di tutto il popolo di Israele, che prega implorando la misericordia di Dio, nel ricordo dei meriti dei propri Padri. Ma se Dio si lascia vedere nella preghiera comunitaria, ancora di più Egli brama d’incontrarci nella preghiera personale, intesa come momento d’intima unione con Dio, come luogo della contemplazione estatica del Suo volto, mentre Egli nasce nella nostra anima. Ed è proprio all’interno dell’ebraismo che, intorno al 1750, sorse un originale movimento religioso fondato sull’esperienza della completa unione con Dio, il Chassidismo. Esso nacque nelle zone ebraico-slave e slavo-tedesche d’Europa come reazione popolare allo “hashkalà”, all’illuminismo ebraico che si era estraniato dal sentimento religioso intimamente e profondamente vissuto. Il Chassidismo, che basava tutto il suo essere sull’agape, sull’amore-giustizia, si nutrì delle leggende religiose e delle parabole mistiche della Kabbalah, in particolare di quelle raccolte nel Sefer ha Zohar, “Il Libro dello Splendore”, ricco, fra l’altro, di elementi neoplatonici, pitagorici e orientali. Il “chassìd”, il pio, praticava e predicava una vita mistica di piena e perfetta letizia, sia perché si sforzava di realizzare (cioè era convinto di poter contribuire a realizzare) il regno di Dio sulla terra, sia perché viveva in contatto con la natura, la cui bellezza era da lui accolta e goduta con religiosa gratitudine. Attraverso l’ascesi il “chassìd” concentrava le forze dell’anima, rendendole capaci di accogliere lo splendore di Dio e compiere proprio con ciò quella scelta e quell’azione che in ogni dato momento sono necessarie per allargare e consolidare il regno di Dio sulla terra. Non vi è quindi né contrasto né in fondo distinzione fra la contemplazione e l’azione, fra il desiderio di accogliere lo splendore di Dio e il desiderio di agire secondo la legge di Dio qui e ora. Secondo le dottrine della Kabbalah e del Chassidismo l’uomo ha il potere di unire Dio che è al di là del mondo, alla sua Shekhinàh o Presenza nel mondo, dando spazio all’idea di una «realizzazione di Dio mediante l’uomo». Dio non agisce infatti come se fosse un «Deus ex machina», ma attraverso la responsabilità di coloro che lo annunciano. La sua assenza è dunque il segno più evidente della sua presenza.

La Shekhinàh, il volto femminile di Dio, la dimora della Sua umanità, raffigurata nei racconti chassidici in forma di donna, avvolta in manti che le nascondono il viso, fugge, scompare e si nasconde; sulla terra, però, restano le sue tracce: orme di passi, vesti abbandonate, fuscelli di paglia, che ne rivelano il passaggio a chi ha lo sguardo più penetrante.

Ma ciò che forse ancora di più caratterizza la mistica chassidica è l’esigenza imprescindibile del dialogo. Il “chassìd” non si isola nella solitudine, come l’asceta cristiano, ma sviluppa le proprie forze spirituali nel colloquio con altri credenti; non insegna ai suoi allievi verità acquisite, ma cerca con essi una verità che dev’essere sempre più approfondita. Uno dei principî più originali di questo misticismo del dialogo è che all’allievo spetta sempre l’ultima parola, affinché dal dialogo esca arricchito il maestro non meno dell’allievo. Il principio del colloquio si estendeva alla comunità intera dei credenti e vi si diffondeva soprattutto nella forma delle parabole (come quelle, celebri, del rabbino Nachman di Bratislava).

A portare sul piano europeo il principio chassidico del colloquio purificatore e fecondo, in una prosa fluida, lieve e limpida, fu il filosofo ebreo austriaco Martin Buber (1878-1965) che nelle sue opere ha sempre affermato la necessità di saper riconoscere l’altro come persona e di rendergli giustizia, non solo nel semplice senso di dargli ciò che gli spetta, ma nel senso di mutarne la condizione e, in uno stadio più avanzato e completo, di volersi riunire con l’altro e con tutto ciò da cui si è separati, in quel fondamento ultimo dell’essere che è al di sopra di entrambi e ad entrambi appartiene. Ma la capacità dell’io di dissolversi, fondendosi con Dio, non sfocia in una religiosità che è estraneazione, evasione, dal momento che il dialogo non è mai un monologo, una conversazione dell’uomo con la propria anima. E per quanto l’esperienza mistica consenta all’anima individuale di percepire la presenza di Dio, quest’esperienza consiste pur sempre in una relazione con un essere che non può identificarsi col nostro essere.

In Ich und Du (L’Io e il Tu) e Das dialogische Prinzip (Il Principio Dialogico) scrisse: « Il Tu è innato nell’Io come disponibilità e prontezza»; «Ognuno vive nell’Io dal duplice volto», giacché l’Io «si fa Io solo nel Tu»; «Ogni vera vita è incontro», e in ogni incontro con il Tu si profila il Tu eterno. Secondo Buber il dialogo è veramente tale quando presuppone una relazione io-tu tra chi esprime un bisogno e chi risponde con piena comprensione e responsabilità, relazione sentita come unità, la quale si realizza là dove c’è finalmente un io che è capace di non ascoltare più soltanto se stesso e i propri bisogni, ma ha educato il proprio sentimento ad ascoltare e capire l’altro nei suoi bisogni e nelle sue richieste. Anche la Bibbia, di cui Buber tradusse con Franz Rosenzweig l’antico testamento in tedesco, è da lui intesa come colloquio fra l’Io di Dio che parla e il Tu di Israele che lo ascolta. Se Dio ha creato il mondo per amore, se Dio ci ha attesi e ci ama sempre, il suo amore non può che manifestarsi attraverso l’interazione, pertanto «In principio vi fu la Relazione» (Ich und Du). Dio non risiede quindi in un mondo ultraterreno al di là della storia, al contrario, vive e agisce proprio come noi nella storia e attraverso la storia, invitandoci a prendere parte attivamente al processo della creazione, spezzando “le catene dell’ingiustizia e rompendo ogni giogo” (Is. 58, 6-12), così da essere “sale della terra e luce del mondo” (Mt. 5,13.14), ed essere “perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt. 5,48). Allo stesso modo anche noi agiamo su Dio, le nostre azioni hanno delle ripercussioni su di Lui, il quale fa esperienze attraverso di noi e partecipa a ogni incontro autentico fra gli esseri umani.

Buber concepiva il Chassidismo come espressione di fede vissuta non intellettualisticamente, o legalisticamente, perciò sosteneva fermamente l’indivisibilità della vita e dello spirito, il dovere cioè e la possibilità di sublimare la vita nello spirito, il quale deve attendere fiduciosamente una teofania, in una posizione attiva ed eroica che è di per sé affermazione di una speranza inestinguibile. (Gog e Magog)

“Guai a colui che è invasato a tal punto da credere di possedere Dio”, ammoniva Buber. Di conseguenza, il Dio – oggetto della teologia è un falso Dio: il vero Dio, quello vivente della Bibbia, è un Tu con cui si parla e non un Tu di cui si parla, è un Dio che in ogni tempo chiede a ogni uomo di rendergli testimonianza col suo impegno per la trasformazione del mondo:

«Quando io ero bambino, lessi una vecchia leggenda ebraica che allora non potevo capire. Raccontava nient’altro che questo: “dinanzi alle porte di Roma sta seduto un mendicante lebbroso e aspetta. E’ il messia”. Mi recai allora da un vecchio e gli chiesi: “Che cosa aspetta?” E il vecchio mi dette la risposta ch’io allora non capii e che ho imparato a capire molto più tardi. Egli mi disse: “Te”». (da Sette discorsi sull’ebraismo)

“Uno può credere che Dio esiste e vivere alle sue spalle, ma colui che crede in Lui, vive dinanzi al Suo volto.” (Martin Buber)

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