Un giorno intero era trascorso da quando i loro occhi avevano accompagnato, in un silenzio colmo di sconforto, il corpo inerte di Gesù sino a vederlo scomparire nel buio del sepolcro. Ora tre delle donne che lo avevano amato e seguito, seguito perché amato, dopo aver atteso che il sabato scorresse lento e triste, mentre tutt’intorno Gerusalemme era in festa, ora queste donne, con il cuore ancora segnato da una ferita aperta e profonda, si mettono in cammino. Lo fanno quando l’ora è ancora incerta, come il loro spirito, quando la notte, invano, si ostina a contrastare l’alba, per poi lasciarsene vincere poco a poco e tornare a ritirarsi dietro l’orizzonte che prende a tingersi d’arancio. Recano in mano degli unguenti con i quali intendono accarezzare, un’ultima volta, il corpo dell’amato: è una sapienza tattile quella femminile, fatta di gesti che avvolgono. È una sorta di congedo che si consuma sulla punta delle dita, che sfiorano e non afferrano, indugiano su un corpo senza poterlo in alcun modo riportare in vita. È il tempo dell’addio, della separazione che, racchiusa nei cuori, fuoriesce dalle mani che dispensano carezze per dire, così, l’amore che non si può dire ma, soltanto, riversare su chi, già, non può più sentirlo, né ricambiarlo. L’amore tradotto nel gesto disperato e tenero di mani che stringono senza riuscire a trattenere. Nelle menti colme di questi pensieri, d’improvviso ne emerge uno, sempre tattile, che affiora sulle labbra di una delle tre: «Come rotoleremo la pietra dall’ingresso del sepolcro?». Ma più grosso ancora è il macigno che pesa sui loro cuori, bloccandone l’entrata: spazio alcuno può trovarvi la speranza, che viene lasciata sull’uscio; né può entrarvi la fede, perché il masso non lascia penetrare nemmeno la luce più flebile nell’oscuro perimetro della rassegnazione. Gesù, l’amato, è morto: l’hanno deriso, offeso, straziato. Questa è l’unica verità, corroborata dalla prova inconfutabile dell’esperienza: le donne l’hanno visto, sia pure da lontano. Era scomparso, appena un giorno addietro, ingoiato da quel buio che sempre accompagna la morte e i suoi luoghi e che, ora, fatica a diradarsi dai loro animi, là dove la luce dell’aurora non rischiara pensieri e sentimenti. Gesù è morto: non tornerà a sorgere il mattino sul loro sconforto, né verrà più l’alba a spargere la luce sul loro dolore muto.
Poi, d’improvviso, un movimento: per la prima volta gli occhi si staccano dal sentiero sul quale sembravano essere rimasti inchiodati, e guardano in su, verso l’ingresso del sepolcro. Sepolcro che in greco è mnemeion, luogo della memoria, alla quale sempre la morte rimanda: ma che qui, invece, si fa sguardo rivolto al futuro, sin da questo momento in cui gli occhi si protendono, al contempo, in avanti e verso l’alto, a cogliere quell’inatteso in cui Dio e la vita abitano e si rivelano. Tra sorpresa e sconcerto, volti increduli scorgono la risposta alla domanda appena risuonata in quell’ora sospesa e in quei cuori esitanti: la pietra non occludeva più l’ingresso del sepolcro. E un raggio di luce sembra penetrare anche nello spazio sino a prima sigillato della loro disperazione; non sanno ancora che cosa sperare, non sanno nemmeno se sperare qualcosa: ma la tenebra non è più così fitta nel cuore, là dove, d’improvviso, avvertono come un fremito ed un accenno di tepore. Grande era la pietra, come il dolore che sentivano: e se l’una era stata scostata, chissà che anche il secondo non potesse essere lenito.
Si fanno coraggio ed entrano: ed ecco, scorgono un giovane, segno della vita che ritorna, che prevale. Se ne sta seduto in disparte, sembra quasi che le stesse attendendo: ha indosso una veste bianca, limpida come lo sguardo che gli attraversa il volto. Eppure - non sanno neppure bene come, né perché - sono prese da paura. Ma alla tenerezza dello sguardo si accompagna, nel giovane, la dolcezza della voce; il ragazzo coglie nei loro occhi e nel muto spazio del loro silenzio il timore di quelle donne e le rassicura. Venute per accarezzare un corpo, si ritrovano accarezzate nell’anima da chi dice loro, in un sussurro: «Non spaventatevi». E come la brezza del mattino scaccia le nuvole lasciando terso l’orizzonte, così quelle parole, per un istante, allontanano la paura e si fanno spazio da sole sotto la pelle, facendola vibrare. Parole che riecheggiano nell’oscurità di quella tomba e che, in qualche modo, la rischiarano. «Cercate Gesù il nazareno, il crocifisso»: due aggettivi scarni a definirlo, il luogo della nascita ed il destino a cui, consapevole, era andato incontro. E una conferma alle donne: «Non avete sbagliato, non ricordano male i vostri occhi che l’hanno seguito da lontano, vedendolo entrare qui, portato da Giuseppe d’Arimatea: questo, proprio questo è il luogo in cui è stato messo il suo corpo». Eppure l’invito non è a fermarsi, a restare lì, inchiodate all’evento e al dolore; non è neppure quello di celebrare l’inatteso, di genuflettersi di fronte al miracolo. No: l’invito è a rimettersi in moto, come spesso chiede di fare il Dio biblico, ripercorrendo a ritroso la il cammino compiuto per recarsi sino a quello che avevano creduto essere un luogo di morte e che, invece, è luogo di scoperta. Si tratta di ripartire, di recarsi nuovamente in quella Galilea da cui le donne e gli altri con loro avevano seguito Gesù pieni di speranza: per comprendere che quella stessa speranza non era naufragata; soltanto, non si era realizzata nei termini di quell’evidenza in cui, spesso, cerchiamo conforto e rassicurazione. Annuncia loro il giovane: «È stato resuscitato». Propriamente, rialzato, risollevato: questa volta non da mani d’uomo, che l’avevano accompagnato, privo di vita, sin dentro il sepolcro; ma dal soffio leggero e potente di Dio, che lo ha preso tra le Sue di braccia, restituendogli quella vita che a Dio soltanto appartiene poiché da Lui, da Lei, solamente, proviene. «È stato risollevato»: usa il passivo, il giovane; a testimonianza del fatto che quel Dio che era sembrato assente, tanto da provocare il grido lacerante di Gesù sulla croce, era in verità il Dio silenzioso e presente, il Dio che rialza l’amato, dopo essere stato accanto a lui, muto, sulla croce. Sceso insieme all’amato nell’abisso del dolore e della sua mancanza di senso, ora Dio ne emerge portandolo tra le braccia, dicendo a chi ha il cuore abbattuto che la morte non possiede l’ultima parola sulla vita, perché la vita è custodita nel seno di Dio come in un solco da cui può tornare a fiorire, come la primavera che con la Pasqua ha inizio. Eppure le donne fuggono con l’inverno ancora nel cuore, invase da un misto di timore e stupore; ma il germoglio, in loro, attende soltanto il disgelo e non tarderà a sbocciare. La paura alberga per un tempo nel cuore delle donne, ma non le vince: fuggono dal luogo ma non dall’esperienza dell’inatteso che le ha investite, tramutando la morte in speranza assurda ma credibile ed il dolore in palpito d’incompresa gioia. Ritroveranno il coraggio le donne e saranno testimoni della resurrezione: come l’evento che annunceranno, anch’esse poco degne di credito per i loro contemporanei e persino agli occhi degli stessi discepoli. Dio, invece, affiderà loro la follia di un messaggio di speranza che non si colloca al di là della morte ma nel suo stesso cuore, dentro cui noi e Dio ci caliamo insieme per poi, insieme, riemergerne. Di questa Pasqua, di questo «passaggio», narra la vicenda di Gesù resuscitato: un varco che Dio ha potuto scavare nei nostri cuori grazie a voci e vite di donne che, attraversato il timore, nell’assurdo hanno saputo riporre speranza e fiducia. Donne capaci di riconoscere in sé la paura e, soltanto così, anche di affrontarla e di superarla: donne che alla paura come alla croce non restano inchiodate, ma che si mettono, sia pure dopo qualche indugio, sui folli sentieri di Dio: quel Dio che, così come loro, genera la vita. Pastore Alessandro Esposito - Domenica 24 Aprile 2011 - Pasqua di Resurrezione - www.chiesavaldesetrapani.com