La visione negativa del sacerdozio giudaico, tramandata dagli evangelisti, trova dei riscontri anche negli scritti dell’epoca. Lo storico Giuseppe Flavio, parlando delle tensioni esistenti all’interno della casta sacerdotale, scrive: «esisteva una mutua inimicizia e lotta di classe tra i sommi sacerdoti da una parte, e i sacerdoti di Gerusalemme dall’altra. E quando si scontravano si servivano di un linguaggio ingiurioso, e si colpivano l’un l’altro con sassi»(Antichità giudaiche 20,180). «(i sommi sacerdoti) non esitavano a mandare i loro servi sulle aie del grano battuto e prelevare le decime dovute ai sacerdoti, col risultato che i sacerdoti più bisognosi morivano di fame» (Ant. 20,181).
La soppressione dei santuari locali in Israele, causata dalla riforma religiosa di Giosia (VII sec a.C.), e la concentrazione del culto a Gerusalemme comportò la supremazia del sacerdozio in quella città.
Da allora, l’ambito dei sacerdoti sarà esclusivamente legato al Tempio di Gerusalemme, unico luogo del culto sacrificale e centro della vita d’Israele in tutti i suoi aspetti, sia politici sia religioso-sociali.
Dopo l’esilio in Babilonia si conferì alla casta sacerdotale una vera e propria autonomia, nonché una maggiore autorità sul popolo. Il sacerdozio divenne la guida religiosa della nazione. Anche la scomparsa della profezia accentuò la sua autorità. La posizione privilegiata del sacerdozio derivava dal fatto che questo costituiva un circolo chiuso, una classe sacra in cui soltanto gli appartenenti alla tribù di Levi o i discendenti da Aronne potevano officiare nel tempio (sacerdozio ereditario). Poiché la vita civile era legata in tutti i suoi aspetti al culto religioso, l’importanza del sacerdozio si accrescerà in un modo sempre più evidente. Per conservare tale dignità i sacerdoti dovevano attenersi a norme precise, quali sposare una nubile vergine, e, in particolare, dovevano astenersi da qualunque contatto con un cadavere, fonte di impurità. Per questo non potevano entrare in una casa dove vi fosse un defunto o partecipare ai funerali. Questo divieto, assoluto per il Sommo sacerdote, veniva meno per gli altri solo in caso di morte di un parente molto stretto. La santità sacerdotale richiedeva inoltre l’assenza di qualsiasi difetto fisico, le imperfezioni che impedivano l’esercizio del sacerdozio erano state calcolate in numero di 142. Infine, per esercitare la loro funzione i sacerdoti dovevano sottostare a innumerevoli regole di purezza rituale. In quanto unici ufficiali autorizzati a svolgere le cerimonie del culto pubblico, dalle quali dipendevano la coesione e la salvaguarda della società giudaica, i sacerdoti erano anche indispensabili all’organizzazione politica della nazione. Il loro numero era tanto elevato (all’epoca del NT si calcola attorno a 18.000) che venne stabilito un sistema di rotazione per le celebrazioni liturgiche al Tempio. Il corpo sacerdotale era diviso in 24 classi, ognuna delle quali assicurava a turno, due volte l’anno, il servizio di una settimana più quello dei giorni festivi. A tale scopo la maggior parte dei sacerdoti si spostava a Gerusalemme dai villaggi sparsi nel paese dove normalmente vivevano.
Dopo l’esilio si sviluppò anche una rigorosa articolazionegerarchica, al cui vertice si colloca la figura del Sommo sacerdote, figlio di Sadoq (leggendario Sommo sacerdote al tempo di Salomone) e discendente di Aronne. Alle sue dipendenze si trovavano i sacerdoti e i leviti, sorta di «clerus minor», con una funzione subordinata, il cui compito era quello di accompagnare il culto con la musica e il canto, di fare da guardia alle porte, oltre che di assicurare la pulizia e il controllo della sicurezza nel tempio. Durante il regno di Erode il Grande, i sommi sacerdoti saranno designati dall’autorità politica, scelti nelle grandi famiglie sacerdotali, appartenenti alla classe sociale più benestante. Il sacerdozio perderà così la sua autonomia, restando sottomesso al potere politico. In contrasto con simile sottomissione al potere civile,
emerge progressivamente nella società giudaica l’ascesa e l’autonomia del movimento laicale farisaico, che prenderà sempre più campo. Il culto assumerà man mano una piega più laica, ruotando attorno alle sinagoghe, case di studio e di preghiera.
Uno dei compiti dei sacerdoti era quello di dare oracoli. Tale procedura scomparirà con la ricostruzione del Tempio dopo il rientro dall’esilio. Prima dell’esilio anche la Torah, la Legge, appartiene al sacerdote che la insegna e vigila per la sua osservanza; dopo il rientro dall’esilio saranno gli scribi a sostituire progressivamente i sacerdoti in questo compito, mentre il ruolo principale del sacerdozio tende a concentrarsi nell’ambito strettamente liturgico-sacrificale. La sua funzione primaria è il servizio al santuario, per cui il sacerdote più che «mediatore» è un «servitore» della divinità. Solo le persone consacrate potevano avvicinarsi all’altare e offrire a Dio il sacrificio,il cui controllo esclusivo da parte della casta sacerdotale si trasformò in una sottile arma di potere sia di tipo economico (offerte), che spirituale (perdono dei peccati).
I sacerdoti di Gerusalemme si presentano pertanto come funzionari del sacro: nulla era lasciato all’improvvisazione, ma tutto veniva stabilito secondo un minuzioso regolamento. Essi formavano una
casta ristretta, gelosa dei propri privilegi e diritti, e difendevano il loro interesse in quanto a decime e all’assegnazione di porzioni di bestiame sacrificato, come le stesse fonte storiche dell’epoca testimoniano.
Fino alla distruzione del Tempio ad opera dei romani (70 d.C.), il sacerdote dipendeva dal culto sacrificale, fonte principale del suo sostentamento. Essendo egli il responsabile del sacrificio quotidiano, nonché di quello festivo e anche dei sacrifici privati, al sacerdote corrispondeva una parte dei sacrifici offerti nel santuario; nessuno lo poteva privare del diritto di mangiare il cibo consacrato delle offerte. Per il loro incarico di addetti ai sacrifici, i sacerdoti apparivano più come macellai professionisti che come uomini virtuosi della preghiera: «Quello che può essere sorprendente per il lettore moderno è l’assenza di preghiera in ogni parte della funzione. I sacerdoti all’altare non pregavano… L’offerta del sacrificio era un’azione sacrale e, come ogni azione di questo genere, era autosufficiente», (E. Bickerman, Gli Ebrei in età greca, p. 189).
Il culto in senso proprio era il culto sacrificale del Sommo sacerdote, che officiava nelle solennità importanti, soprattutto nel Giorno dell’Espiazione (in ebraico «Yom Kippur»). Solo una volta all’anno, nella ricorrenza di quella solennità, il Sommo sacerdote poteva accedere al Santo dei santi, ossia alla stanza più sacra del santuario, e fare l’aspersione con il sangue della vittima sacrificale per l’espiazione dei peccati del popolo, un rito alquanto complesso, come prescrive il libro del Levitico al cap.16. Elemento centrale di questo rito, il più solenne di tutta la liturgia, non era il Sommo sacerdote, con tutta la sua sacralità, ma l’animale sgozzato e offerto in sacrificio, il cui sangue doveva purificare il popolo dai suoi peccati. Nel luogo più santo di tutta la terra, quello della dimora divina, ciò che restava al suo interno era il sangue della vittima offerta in sacrificio.
I sacrifici avvenivano all’aperto, sull’altare costruito nel cortile davanti all’ingresso del santuario. Nel Tempio di Gerusalemme, la distribuzione degli spazi propri del santuario ricordava quella delle case palestinesi, dove si cucinava sempre nel cortile, sicché anche Jahvè aveva la sua “cucina” e il personale necessario per sbrigare i relativi compiti. Secondo le testimonianze giudaiche dell’epoca nessun visitatore del Tempio, o i partecipanti al culto, era disgustato da questa atmosfera di macelleria: «Mercanti che vendevano animali adatti al sacrificio e recipienti ritualmente puri per i pasti sacri, cambiavalute, macellai, cuochi ed altro personale ausiliario giravano per i cortili esterni del Tempio e davano ad esso l’aspetto di un bazar orientale. Nessuno trovava da ridire su questo traffico, poiché ogni santuario rinomato, sia in Grecia che in Oriente, era anche un centro di commercio. Ogni tempio era tanto un mattatoio quanto un luogo per mangiare, una condizione inseparabile dal sistema sacrificale» (E. Bickerman, op. cit., p. 192)
Il sacerdozio d’Israele era espressione di un apparato religioso che spesso non teneva conto delle reali condizioni di vita in cui si trovava il popolo; l’attaccamento scrupoloso dei sacerdoti al rituale, e alle norme di purità ad esso legate, appare inoltre in forte contrasto con la spontanea e fresca spiritualità espressa, ad esempio, dai profeti d’Israele. La differenza sostanziale tra il profeta e il sacerdote è che il primo risponde a una chiamata o vocazione, mentre il secondo è designato a un ufficio in base alla sua appartenenza alla stirpe sacerdotale. In quel contesto sacerdoti si nasce, profeti si diventa.
Essendo uomini legati alla tradizione del passato, difficilmente i sacerdoti potevano venir incontro alle nuove esigenze e necessità in cui si trovava il popolo, inoltre la loro scrupolosa osservanza rituale di frequente nascondeva la mancanza di fedeltà nella pratica della misericordia e della giustizia. Saranno i profeti a lanciare una forte critica contro le loro deficienze, come ben ricorda Isaia, all’inizio del suo libro, quando attacca il culto in se stesso (Is 1,11-15). Nella denuncia del profeta ogni pratica cultuale è qualificata con una nota negativa: non mi importa / sono stanco / non apprezzo / vuoto / esecrabile / detesto /distolgo gli occhi / non ascolto.
Per Isaia l’abbondanza di pratiche religiose è segno di incredulità. Ai diversi rituali gestiti dai sacerdoti (olocausto / sacrificio di comunione / di espiazione / di ringraziamento), la denuncia dei profeti sarà che non è possibile accettare alcuna forma di culto a Dio che sia separato dalla vita o che non sia espressione della giustizia. Attraverso il sacrificio si voleva riconoscere la signoria di Dio, alla quale si deve sottomissione, ma tale riconoscimento spesso non portava al rispetto della libertà e della dignità dell’uomo, immagine di Dio. La forte critica proveniente dall’ambito dei profeti riguarda l’enfatizzazione del culto a scapito della vita, degradando Dio a livello di quelle divinità pagane che si lasciano piegare con sacrifici e offerte. L’accusa mossa ai sacerdoti è di sostituire con il culto la giustizia. Se si spezza il legame fra il culto e la giustizia si colpisce al cuore la fede d’Israele. Per il profeta l’esperienza di Dio, della sua presenza, non avviene attraverso il culto, anche con i suoi accenni mistici, ma nell’amore concreto, praticando la giustizia e il diritto. Non si può fare esperienza del divino senza cercare il bene dell’altro, puntando sulla misericordia al posto del sacrificio, come propone Osea (Os 6,6). Senza questa premessa il rituale diventa una farsa. Solo la vita che si apre all’altro può dare consistenza al culto, espressione di ciò che si vive nei rapporti umani. Con la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio nel 70 d.C., scompare il culto sacrificale e la casta sacerdotale perde il suo ruolo preponderante nella società giudaica. La fine di un’istituzione religiosa, come quella del sacerdozio, che ha caratterizzato la storia del popolo d’Israele fin dai suoi inizi, è paradossalmente accompagnata dalla realizzazione di quel disegno divino che permetterà la piena comunione tra Dio e l’umanità.
La portata delle parole di Es 19,4-6 è ampiamente superata nella persona di Gesù:la dignità regale e sacerdotale promessa agli israeliti nel deserto non sarà più ristretta a un’etnia particolare ma estesa a tutte le genti. Quanti si aprono all’amore incondizionato del Padre e sono capaci di trasmetterlo, come il Samaritano della parabola di Luca, costoro rendono l’unico culto a Lui gradito (cfr. Gv 4, 23).
Violairis - 5 ott 2011 - www.chiesavaldesetrapani.com