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01/11/2011 15:21:34

Stare un po' in silenzio: non sarebbe meglio per tutti?

Quanto al silentium monastico, esso è effettivamente raccomandato dalla Regola di Benedetto da Norcia, in cui leggiamo che «per amore del silenzio bisogna astenersi persino dai discorsi buoni» (cap. 6), ma si tratta soprattutto del silenzio del discepolo davanti al maestro e del semplice monaco davanti «al superiore», cioè all'abate. C'è poi la «legge del silenzio» (cap. 42) da osservare per tutta la notte, senza deroghe, dopo l'ultimo rito liturgico comunitario (la «compieta»). Inoltre, i benedettini osservano il silenzio durante i pasti, ma è un silenzio relativo perché, mentre i monaci tacciono, un lettore legge ad alta voce pagine edificanti di spiritualità oppure dà notizie di attualità religiosa o politica. Il silenzio, in quanto «custode della parola e del pensiero», sta particolarmente a cuore ai trappisti (cistercensi riformati). Il nostro lettore menziona anche il «silenzio carico di serietà dei momenti più alti della messa cattolica»: si tratta però, per quel che ne so, di pochissimi istanti che accompagnano la «transustanziazione » degli elementi secondo la dottrina cattolica dichiarata dogma, cioè articolo di fede, dal Concilio di Trento nel 1551: per il resto la messa cattolica non contempla, mi pare, tempi liturgici di silenzio. Resta, tra gli esempi di silenzio segnalati dal nostro lettore, quello del «culto Amish».

Gli Amish sono una comunità sorta nel Cinquecento sulla scia del movimento anabattista e in particolare mennonita, ed è presente oggi soprattutto negli Stati Uniti. Sono pacifisti integrali, rifiutano le armi e la violenza, coltivano la terra con i metodi tradizionali, rinunciando ai macchinari e alle tecniche moderne, compreso l'uso dei motori e dell'elettricità. Non conosco le loro pratiche cultuali e quindi non mi posso pronunciare in merito. Conosco invece, a proposito di silenzio, il culto dei Quaccheri, avendovi partecipato alcune volte (1). È effettivamente un culto che si svolge in silenzio, nell'attesa viva che Dio ispiri qualcuno a parlare, se Egli vuole dire qualcosa alla comunità. In caso contrario, nessuno parla e l'assemblea si scioglie. Il «silenzio» dei Quaccheri (e, debbo presumere, degli Amish) è una disciplina spirituale non facile da praticare, che consiste nel liberare l'anima da pensieri, ragionamenti, conoscenze, preoccupazioni e in qualche modo «svuotarla», per renderla idonea ad accogliere lo Spirito divino e a far brillare «la luce dentro» (the Light within), che c'è in ogni uomo. Una quacchera racconta così la sua esperienza: «I continui e prolungati silenzi (...) esercitarono ben presto i loro effetti (...).

Dopo un po' di tempo scendeva su di me un profondo senso di timore reverenziale: stavamo seduti insieme e aspettavamo. Che cosa? Nel mio cuore, che comunicava con altri cuori, sapevo nel nome di chi ci incontravamo, e sapevo chi veramente era presente in mezzo a noi. Prima non mi aveva mai rivelato la sua influenza con tanta potenza quanto accadeva in quelle assemblee tranquille» (2). Un altro testimone parla di «una vera onda spirituale che in quei momenti silenziosi si riversa sull'assemblea ». È proprio quello che il nostro lettore suggerisce: il silenzio come mezzo di comunicazione sia tra «cuori», sia con Dio. Questo silenzio non è fine a se stesso, ma da un lato è percezione della presenza di Dio, silenziosa ma reale, come lo è quella dello Spirito che, come la luce, non fa rumore (si sente la «voce» del vento, come dice Gesù a Nicodemo adoperando un'immagine, ma la voce dello Spirito, a differenza di quella del vento, è silenziosa); d'altro lato quel «silenzio vivente», quella «profonda tranquillità del cuore e della mente» è carica di attesa che Dio manifesti la sua presenza ineffabile anche attraverso la Parola, che non è affatto esclusa, anzi è desiderata e cercata, ma dev'essere la Sua, non la nostra, non deve venire da noi, ma da Lui.

Che il silenzio possa essere un mezzo di comunicazione tra Dio e l'uomo è un fatto che proprio la Bibbia (che giustamente chiamiamo «Parola di Dio») documenta in due modi, uno positivo, l'altro negativo. Quello positivo è illustrato dal celebre episodio di cui fu testimone il profeta Elia il quale, uscendo dalla caverna sul monte Sinai dove si era rifugiato, vide «Dio che passava» (I Re 18, 11-12): soffiò un vento impetuoso, ma Dio non era nel vento; ci fu un terremoto, e poi un fuoco, ma Dio non era né nel terremoto né nel fuoco. Era invece «nel suono di un silenzio sottile» (così dice il testo originale, che viene di solito tradotto con «un suono dolce e sommesso», oppure con «un sussurro di brezza leggera»). Elia deve dunque imparare ad ascoltare la voce di Dio non solo nella Parola che tante volte Dio gli aveva rivolto, ma anche «nel suono di un silenzio sottile».

Questo è il modo positivo della comunicazione di Dio all'uomo attraverso il silenzio. Ma c'è anche nella Bibbia un modo negativo: è il silenzio di Dio di cui parla il profeta Amos quando dice che Dio stesso manderà nel paese «la fame e la sete di udire le parole dell'Eterno», e allora tutti «correranno di qua e di là, dal settentrione al levante, per cercarla, e non la troveranno» (8, 11- 12). Un altro silenzio analogo, anche se avvenuto in un contesto completamente diverso, è quello di Gesù che, a un certo momento del suo processo, «non rispose più nulla», tanto che Pilato «se ne meravigliava» (Marco 15, 5). È lo stesso silenzio che Gesù mantiene fino alla fine davanti al Grande Inquisitore, nell'omonima Leggenda (per nulla leggendaria!) di Fëdor Dostoevskij. Sì, Dio parla, eccome, anche tacendo. Ci sono momenti nella storia umana, individuale e collettiva, in cui l'unica parola possibile è il silenzio. Beato chi lo sa ascoltare, e non lo confonde con una assenza di Dio.

Ma può il silenzio essere un mezzo di comunicazione dell'uomo con Dio, come ci dicono vari passi della Scrittura e diverse esperienze storiche cristiane, come quelle citate sopra, e altre ancora, e come sostiene con convinzione il nostro lettore? Il quale, a sostegno della sua tesi, cita una traduzione possibile del Salmo 65, 1, che è quella adottata a suo tempo dalla Riveduta: «A te, o Dio, nel raccoglimento [silenzioso] sale la lode in Sion», e della nuova traduzione della Conferenza episcopale italiana: «Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion». Così hanno tradotto Girolamo («Per te il silenzio è lode, o Dio») e Lutero («O Dio, ti si loda nel silenzio a Sion»), ma non Calvino («O Dio, lode ti attende in Sion»). Tra i moderni, Gianfranco Ravasi, come la Nuova Riveduta, lascia fuori il tema del silenzio, pur riconoscendo quanto sia suggestivo per le risonanze mistiche che contiene, e traduce così: «A te si deve lode in Sion, o Dio».

Le due traduzioni sono entrambe possibili, ma a guardar bene nella Bibbia il silenzio dell'uomo è associato alla attesa di Dio più che alla sua lode. «Non sono i morti che lodano l'Eterno, né alcuni di quelli che scendono nel luogo del silenzio» (Salmo 115, 17), cioè nel soggiorno dei morti. Anche se la tradizione mistica, ebraica e cristiana, sostiene che «il silenzio è la preghiera perfetta » e che «il più bel canto è quello che racchiude il più grande silenzio», pure si deve constatare che l'idea di una lode di Dio nel silenzio non ricorre né nell'Antico né nel Nuovo Testamento. Distinguerei quindi la questione del silenzio da quello della lode. Non si loda Dio con il silenzio, ma al contrario con la parola e il canto.

Ci sono però molte buone ragioni per «fare silenzio» davanti a Dio (Habacuc 2, 20). Anzitutto, bisogna tacere per ascoltare. In secondo luogo, bisogna tacere davanti al giudizio di Dio. In terzo luogo, bisogna tacere nell'attesa di Dio. In questo senso direi «sì» alla proposta del nostro lettore, con due precisazioni. La prima l'ho già accennata: tacere non significa solo non parlare. È un'operazione più complessa che richiede disciplina interiore e allenamento spirituale. La seconda è che il silenzio va strettamente collegato alla preghiera, come fa Kierkegaard in questo suo pensiero: «Quando la sua preghiera divenne sempre più profonda ed interiore, egli aveva sempre meno da dire. Alla fine tacque completamente. Diventò ciò che è un opposto ancora più grande al parlare: diventò un ascoltatore. Prima pensava che pregare fosse parlare, ma poi imparò che pregare non è solo tacere, ma anche ascoltare».

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(1) «Quaccheri» è, come si sa, un nomignolo, ricavato dal verbo inglese to quake, che significa «tremare». Il vero nome del movimento, ispirato alla parola di Gesù di Giovanni 15, 15, è «Società degli Amici». Scrive George Fox nel suo Diario: «Fu il giudice Bennet di Darby il primo a chiamarci Quakers, perché noi gli dicemmo di tremare dinanzi alla parola di Dio, e questo accadeva nell'anno 1650». A chi volesse documentarsi sulla spiritualità quacchera, segnalo un'agile raccolta di testi, curata da Pier Cesare Bori e Massimo Lollini, La Società degli Amici. Il pensiero quacchero, Linea d'Ombra, Milano 1993.
(2) Caroline Stephen, Punti fermi quaccheri, in: La Società degli Amici, citata nella nota precedente, p. 142.

Tratto dalla rubrica Dialoghi con Paolo Ricca del settimanale Riforma del 26 agosto 2011