Pertanto, pur ribadendo il fatto che, per ciò che attiene alla
riforma della chiesa e delle chiese, si tratti di una
necessità, bisogna constatare che, allo stato dei fatti, si tratta più verosimilmente di un’
illusione. Di fronte a questo amaro riconoscimento, bisogna dunque valutare se vi siano o meno i margini per poter parlare, in tal senso, quantomeno di una
possibilità ragionevole. Perché sia dato di esprimersi in tal senso, dobbiamo previamente considerare quale sia il significato (o i significati) che conferiamo al termine
riforma.
I sensi possibili sono, com’è ovvio, molteplici; vorrei limitarmi a quattro di essi che, a mio giudizio, hanno caratterizzato il fenomeno successivamente denominato
protestantesimo storico che, come è risaputo, affonda le proprie radici, simbolicamente, nel gesto audace di un monaco agostiniano che, in spregio a divieti ed intimidazioni, decise, il 31 ottobre del 1517, di affiggere sulla porta della chiesa della cittadina di Wittemberg, in Germania, 95 tesi che mettevano in discussione l’assetto teologico-politico della chiesa a lui coeva. Proprio per rimanere in tema, il gesto di Martin Lutero era volto a provocare, in seno
all’unica chiesa di cui anch’egli era parte, una riflessione che, sul piano concreto,
potesse dar luogo a quelle riforme di cui, a suo giudizio, la chiesa stessa necessitava. Anche nel suo caso, però, si trattò dell’amaro abbaglio di un’illusione, giacché le sue obiezioni non vennero accolte ma condannate e, anziché ad una riforma, esse portarono ad uno
scisma, da lui originariamente non voluto. Fu il magistero cattolico, difatti, ad estromettere Lutero accusandolo di eresia: ma Lutero criticò la chiesa, non l’evangelo; di più: la criticò
alla luce dell’evangelo, che egli vide più tradito che non realizzato dall’istituzione ecclesiastica. Oggi vorrei soffermarmi insieme con voi su quella che ritengo essere l’estrema
attualità degli aspetti fondamentali della riforma che potrebbero, credo, dare avvio ad un processo di riflessione interno a tutta l’ecumene cristiana serio ma, al contempo, rispettoso della pluralità che la connota: e vorrei farlo partendo proprio da ciò che la vicenda di Lutero ci permette di constatare.
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Il primo di questi aspetti rappresenta il presupposto irrinunciabile affinché la possibilità di una riforma della chiesa non si riveli, una volta ancora, meramente illusoria e riguarda l’impossibilità di sovrapporre il messaggio evangelico alla chiesa che se ne fa latrice e testimone. In virtù di tale imprescindibile riconoscimento, la chiesa può e anzi deve essere soggetta a critiche, che è bene che le vengano rivolte, anzitutto, da quanti la costituiscono e che, pertanto, non possono che criticarla per amore.
Il desiderio di ogni uomo e di ogni donna e, insieme, di ogni cristiana ed ogni cristiano, è (o, quantomeno, dovrebbe essere) quello di una chiesa conforme all’evangelo, imperfetta, ma sempre perfettibile, che si critica in misura direttamente proporzionale a quanto la si ha a cuore. Essa, non va mai dimenticato, è istituzione
umana e, pertanto, le riserve nei suoi riguardi non sono soltanto inevitabili ma persino salutari, perché consentono alla chiesa di interrogarsi e di lasciarsi interrogare, aprendosi in tal modo alla possibilità di trasformarsi e di rinnovarsi alla luce di quella Parola che costituisce l’orizzonte verso cui essa muove i propri passi: e, come ogni orizzonte, tale Parola rimane incircoscrivibile, non manipolabile, perennemente ulteriore. Sarà sempre la Parola, dunque, ad
orientare la vita e la prassi della chiesa e mai la stessa Parola a rivelarsi funzionale alle esigenze dell’istituzione ecclesiastica.
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Il secondo aspetto, accolto anche dalla Costituzione Dogmatica Dei Verbum elaborata nel corso del Concilio Vaticano II, riguarda proprio la centralità delle Scritture ebraico-cristiane quali fonti alle quali fare ritorno per approfondire il senso più autentico della nostra variopinta e cangiante identità di fede. La Riforma, difatti, nelle sue intenzioni originarie poi inevitabilmente disattese nella loro integrità, ebbe quale proposito principale proprio quello di restituire alle Scritture la centralità che nella vita di fede dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) essere loro assegnata. Il protestantesimo moderno ha poi ulteriormente sviluppato questa concezione fondamentale, maturando una progressiva libertà d’interpretazione alla luce della quale le stesse Scritture acquisiscono profondità e capacità rivelativa, poiché la ricerca del senso rappresenta comunque un’operazione che fa appello all’intelligenza umana ed alla sua capacità creativa, che deve sempre essere chiamata in causa e mai, per nessun motivo, ingabbiata o, men che meno, condannata. I testi biblici ci invitano ad instaurare un rapporto vivo e dinamico con quelle verità narrative che essi contengono e che, se ascoltate, accolte, meditate, hanno molto da dire alle nostre esistenze inquiete.
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Il terzo aspetto, intimamente legato ai primi due, concerne la profonda libertà da cui tutta la vita di fede deve essere connotata, non soltanto per ciò che attiene alla ricerca che la caratterizza, ma anche per quanto riguarda l’organizzazione della vita comunitaria e l’esercizio dei ministeri, parola che, etimologicamente, rinvia al servizio come responsabilità e non al potere come esercizio arbitrario dell’autorità. Il protestantesimo, difatti, costituì, specie nel suo sviluppo storico, la recisa affermazione del principio d’autonomia della coscienza in materia di fede e di vita ecclesiastica in contrapposizione a quel principio d’autorità che preferisce dei fedeli obbedienti a dei credenti consapevoli. Questi ultimi soltanto consentono alla comunità ecclesiastica di divenire il luogo di una fede confessante che, sia pure debitrice, come è inevitabile che sia, della tradizione di cui è figlia, non si limita a riproporla invariabilmente, ma la interroga e la reinterpreta, secondo l’invito rivolto dal filosofo Immanuel Kant ad uscire da quello stato di minorità in cui, troppo spesso, le istituzioni religiose intendono relegare i loro fedeli, impedendo loro di maturare nella direzione di una fede autonoma perché adulta.
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Questo dovrebbe portare, come conseguenza, a restituire centralità (così come ha cercato di fare in ambito cattolico, una volta ancora, il Vaticano II) a quello che è stato chiamato il popolo di Dio, a cui tanto spazio ha riservato, nell’elaborazione teologica così come nella celebrazione liturgica e nell’aspetto dell’organizzazione della vita comunitaria, la Teologia della Liberazione latino-americana. Essa ha rappresentato la speranza di una riforma radicale della chiesa tutta nel senso di un evangelo di giustizia improntato, anzitutto, alla democratizzazione della vita e delle strutture ecclesiastiche. Purtroppo, da parte del Magistero cattolico (Congregazione per la Dottrina della Fede in primis, autrice di due Istruzioni: la Libertatis Nuntius. Su alcuni aspetti della «Teologia della Liberazione», del 1984; e la Libertatis Conscientia. Istruzione su libertà cristiana e liberazione, del 1986), tale teologia ha ricevuto una ferma condanna e, in ambito protestante, non ha avuto molto seguito.
Restituire centralità alla base per rielaborare gli aspetti teologici e liturgici è un compito urgente e indifferibile, se desideriamo che davvero la chiesa divenga il luogo in cui sia possibile sperimentare la fecondità del cambiamento che nasce dal confronto con la società che si trasforma e la interroga, evitando così che abbia luogo quel
divorzio della chiesa
dalla modernità che non può che portarla ad un progressivo isolamento ed al rischio di una sterile autoreferenzialità e di un inutile arroccamento.
In conclusione, vorrei riprendere una riflessione del teologo cattolico italiano Giulio Girardi, che in maniera che reputo assai acuta fa notare:
«Nel corso della storia, l’evangelo di Gesù si è scontrato con due tipi di resistenza: una opposta da quanti lo hanno rifiutato, l’altra manifestata da quanti lo hanno accolto, adattandolo e piegandolo, però, ai propri interessi. Il pericolo più grave per l’affermazione del vangelo non è rappresentato da chi lo combatte apertamente, ma da chi lo [monopolizza]»
[Tratto da:
La túnica rasgada. La identidad cristiana hoy, entre liberación y restauración, Sal Terrae, Santander, 1991]
Ed è questo, come chiese, il pericolo che più spesso ci troviamo a dover fronteggiare.
Alessandro Esposito (Pastore Valdese a Trapani & Marsala) -