Il problema di Dio sta nelle “rappresentazioni del Trascendente” che ci facciamo. Quando le religioni ci parlano di Dio, in realtà non parlano, né possono parlare, infatti, di “Dio in sé”, ma delle “rappresentazioni” umane di Dio. Tali rappresentazioni non sono che “oggettivazioni”. Noi non possiamo pensare se non oggettivando, perché non abbiamo altra capacità di pensare; anche le definizioni più astratte della metafisica su Dio — l’infinito, l’assoluto, l’eterno — sono oggettivazioni. Dio non è nulla di tutto questo. Queste sono solo le nostre rappresentazioni mentali, che hanno origine dal proiettare su Dio i nostri desideri più profondi: desideri di felicità, di perfezione, di bontà, di potere, di sapere, di possedere, di eternità. E ciò spiega perché dalle “rappresentazioni del Trascendente” da noi elaborate sia venuto fuori un Dio contraddittorio, un essere che è, allo stesso tempo, infinitamente potente e infinitamente buono, qualità entrambe incompatibili con il problema del male. Se ci atteniamo alla sola ragione, per questa via arriviamo direttamente a contraddizioni irrisolvibili. Ciò vuol dire che il tema di Dio è condannato inevitabilmente al fallimento? Questo Dio, inoltre, è un Dio pericoloso, perché è un Dio monoteista e, per ciò stesso, un Dio escludente e, inevitabilmente, anche violento.
L’unica via d’uscita, allora, è quella di pensare a Dio in altro modo, di modificare la nostra idea di Dio e la nostra rappresentazione di Dio.
Noi sappiamo che l’essere umano non agisce, né solo né principalmente, sulla base di quello che ci può offrire il discorso razionale. Ciò che è determinante nella nostra vita non sono le ragioni e le verità che scaturiscono dai contenuti mentali. Ciò che è determinante, che dà senso alle nostre vite, sono le convinzioni che derivano soprattutto dalle esperienze e che si traducono in modi di comportamento e in stili di vita.
Perché la relazione con Dio possa aver senso ed essere accolta dalla gente del nostro tempo, non deve, allora, fondarsi su credenze centrate sulla metafisica dell’“essere”. Noi siamo figli della cultura dell’Occidente, una cultura, nella quale hanno lasciato la loro impronta le tradizioni della Bibbia. E prendendo in mano la Bibbia, si scopre che in essa non vi sono speculazioni sull’essere di Dio tratte dalla metafisica, ma narrazioni di eventi tratti dalla storia. Ed è in tali racconti, sempre legati alla condotta, al comportamento umano, che scopriamo Dio e che possiamo incontrare la rappresentazione del Trascendente. Alla rivelazione biblica non interessa cos’è Dio, ma quel che succede quando Dio agisce. Per questo il giudaismo non ha centrato la sua relazione con Dio sulla fede, ma sulla prassi, sull’azione, sulla condotta, sul compimento della Torah. L’”uomo di fede,” nel giudaismo, è colui che segue un determinato comportamento, una condotta esemplare. In altre parole, la sua fedeltà si realizza e si manifesta nella pratica della giustizia. Ovvero: la relazione dell’essere umano con Dio si attua non mediante la fede, ma mediante l’etica. Si gioca nell’ambito non delle credenze, ma della condotta.
La fede cristiana ha risolto il problema della nostra relazione con Dio e anche con l’essere umano, ponendo al centro del cristianesimo non Dio, ma Gesù, il Gesù terreno, nato, vissuto e morto nella Palestina del I secolo. Quell’uomo, quell’essere umano, è il centro del cristianesimo perché in lui Dio si è rivelato, si è fatto conoscere, si è comunicato e si è donato a noi. In Gesù, Dio è entrato nella nostra immanenza e si è unito alla condizione umana. Il che significa che è nell’umano, e solo nell’umano, che possiamo incontrare Dio e relazionarci con lui. Questo è, in definitiva, quello che rappresenta e che significa Gesù di Nazareth. Quando la teologia cristiana afferma che Gesù è l’incarnazione di Dio, quello che in realtà dice è che Gesù è l’umanizzazione di Dio. Non è allora nella verità teorica o metafisica, né nello spazio separato e privilegiato del culto cerimoniale che si produce il più profondo e autentico incontro con il Dio di Israele e il Dio di Gesù, bensì nel quotidiano della vita, in ciò che vi è di più semplice e banale, nelle circostanze della nostra condizione umana, oltre che – e mi sembra determinante – nell’esperienza mistica intesa come unificazione dell’io in Dio.
La teologia cristiana è abituata a parlare del mistero dell’incarnazione di Dio. Questa formula è, in fin dei conti, la fedele traduzione di un versetto del prologo dell’evangelo di Giovanni (1,14). Ma al pensiero cristiano ha ripugnato l’uso di un linguaggio che potesse esprimere, o almeno, insinuare un abbassamento della divinità nell’umanità. È ciò che si avverte nella formula finale del concilio di Calcedonia (a. 451), in cui la Chiesa si vide obbligata a dire che Gesù Cristo è «perfetto nell’umanità», ma in maniera che in lui c’è «una sola persona», che è la persona divina. Il che equivale a dire che in Gesù esiste un’umanità perfetta senza persona umana. Un’affermazione strana che ha portato i cristiani a credere che Gesù fu, naturalmente, umano. Ma realmente meno umano che divino. Che è la stessa cosa che dire che in Gesù prevalse la divinità sull’umanità, idea che molti cristiani portano avanti senza il minimo problema. Molti cristiani s’inquietano se si mette in discussione in qualunque maniera la divinità del Cristo. Ma raramente si agitano se si parla di Gesù come una specie di essere celestiale mascherato da uomo.
Nella Lettera ai Colossesi si legge che Gesù è “
l’immagine del Dio invisibile”(1,15), cioè l’immagine dove si può vedere quello che altrimenti non sarebbe possibile. E all’inizio della Lettera agli Ebrei (1,3), si afferma che il Cristo fu la rappresentazione della realtà profonda di Dio.
Scrive Giovanni, al termine del prologo al suo evangelo, che “
Dio nessuno lo ha mai visto” (1,18), e che solo il figlio, Gesù, ne è la piena rivelazione. E il Dio che si manifesta in Gesù è un Dio pienamente umano, attento e sensibile ai bisogni e alle sofferenze degli individui, dei quali conosce anche i capelli che hanno sul capo (Mt 10,30).
Paolo di Tarso, Giovanni e Matteo affermano rispettivamente che il Dio di Gesù è un Dio che si svuota di se stesso, è un Dio che si è umanizzato ed è un Dio che si incontra in ogni essere umano.
Paolo insegna che in Gesù Dio «
si è svuotato di se stesso» (Fil 2,7), intendendo con ciò dire due cose: 1) che di Dio possiamo conoscere solo la sua manifestazione esteriore e a noi accessibile, ossia la sua manifestazione visibile e tangibile. Cioè, di Dio possiamo conoscere solo come si rende presente in questo mondo. 2) Che il Dio che si fa conoscere in Gesù si fa presente solo «in forma di schiavo», giacché è un Dio che ha rinunciato definitivamente a ogni grandezza, a ogni maestà, a ogni espressione di potere. Pertanto, nella misura in cui ci avviciniamo a questo modo di essere nel mondo e ci mettiamo dalla parte di chi vive in questo modo, ci avviciniamo a Dio, il quale non può essere rappresentato se non nello svuotamento e nella nudità degli ultimi, “i nessuno” di questo mondo. Inoltre, un Dio umiliato e svuotato di se stesso non pretende, né vuole, né può imporsi ad alcuno.
Se qualcosa è chiaro, nei racconti della vita del Gesù terreno, è che egli fu un uomo, un essere umano come gli altri. Ma lo fu in modo tale che, in quell’essere umano, si vedeva e si palpava Dio. Una realtà che, se ancora oggi ci risulta sorprendente, molto più doveva esserlo per chi ha convissuto con Gesù. Nel lungo racconto dell’ultima cena, come lo riporta il IV evangelo, si descrive un momento in cui l’apostolo Filippo interrompe Gesù dicendogli: «
Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). Gesù risponde con naturalezza, affidandosi alla conoscenza che quegli uomini che lo accompagnavano avevano di lui: «
Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Secondo l’evangelista, conoscere Gesù è conoscere Dio: la conoscenza di Dio si è fatta in Gesú visione di un essere umano. Il che non vuol dire che Gesù fosse “divinizzato”, ma esattamente il contrario, che, in Gesù, Dio si era “umanizzato”. Ciò non esclude, tuttavia, che si possa anche parlare di “divinizzazione” di Gesú in Dio, ma solo come conseguenza dell’”umanizzazione” di Dio in Gesù.
Secondo l’evangelista Matteo, Dio lo si incontra in ogni essere umano (Mt 25, 31-46). Non si tratta solo del fatto che Dio si è umanizzato nell’essere umano che fu Gesù, il Gesù terreno. Si tratta della cosa più radicale che si può porre nell’ambito delle credenze religiose: che Dio si identifica con qualunque essere umano, anche il più piccolo, il più insignificante, il più indegno, e che l’etica motivata dalla misericordia è la realizzazione fondamentale e determinante della fede. Ne deriva che il progetto cristiano non può che essere lo stesso progetto di Dio, che se vogliamo essere coerenti con ciò in cui crediamo, il progetto cristiano non può che essere un progetto di umanizzazione. Umanizzazione il cui cammino Gesù traccia nei vangeli, poiché il progetto di vita che egli ci ha lasciato consiste nel non voler mai dominare o sottomettere gli altri, ma nell’essere sempre con loro, specialmente con gli ultimi, con quanti stanno più in basso e sono per questo le vittime della storia.
Il cristianesimo crede in un Dio che ha rinunciato alla sua condizione divina e si è identificato con l’umanità. Dio non si è incarnato nel sacro con i suoi privilegi, né nel religioso con i suoi poteri. Dio si è fuso con l’umano. Pertanto, Dio lo troviamo, prima di tutto, in ciò che è comune e che ci unisce a tutti gli esseri umani. Non c’è altro cammino, né altra possibilità, perché se Dio s’è umanizzato in Gesù, non c’è altro mezzo per incontrare Dio che farci profondamente umani.
Se Dio lo incontriamo in ciò che è veramente umano, ciò vuol dire che lo incontriamo nella libertà umana, nell’amore umano, nel rispetto per gli altri, nella vicinanza a tutto ciò che c’è di autenticamente umano nella vita. E il rapporto con l’umano non è una realtà specificamente religiosa, ma una realtà specificamente laica, poiché a una tale realtà rimandano le parole di Gesù sull’impegno di ciascuno per restituire dignità e diffondere benessere e felicità agli altri (Mt 25,35-36). Lo specifico del cristianesimo è, quindi, il rapporto con Dio partendo dalla laicità, e vivendo pienamente la nostra condizione laica, perché soltanto la laicità è comune a tutti gli esseri umani. Ritengo perciò che la corretta comprensione del cristianesimo è quella che lo interpreta come un movimento non-religioso. Sono state le chiese che si sono appropriate di Gesù presentandolo come il centro e il contenuto fondamentale di una religione determinata, quella cristiana. Ma Gesù non è proprietà del cristianesimo, Gesù è patrimonio di tutta l’umanità.
Violairis - 3 nov 2011 - www.chiesavaldesetrapani.com