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27/11/2011 08:42:17

Il miracolo della fede

Un padre porta davanti a Gesù il proprio figlio, vittima, sin dall’infanzia, di un demone muto che lo scuote e lo minaccia. Ogni tentativo di curarlo è risultato vano e il padre supplica Gesù di guarirlo. Gli chiede aiuto a favore di una creatura incapace di farlo da sé. Il vangelo è pieno di grida di chi chiede la guarigione per se stesso. Non però qui, quando il soggetto è colpito nella sua stessa capacità di domandare. Il mutismo del figlio obbliga il padre a parlare. Impotente a soccorrerlo, il genitore chiede aiuto ad altri. Prima si rivolge ai discepoli di Gesù, ma essi falliscono, allora interpella direttamente il Maestro che risponde duramente, tacciando d’incredulità la propria generazione. Nel dialogo successivo il padre, rivolgendosi al Maestro, dice: «Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». Gesù gli risponde: «Se tu puoi! tutto è possibile a chi crede»; il padre allora replicò: «Credo, aiuta la mia incredulità» (cfr. Mc 9,14-28). Davanti alla muta incapacità del figlio di chiedere aiuto anche la non fede del padre diviene un credere. La fede nasce dalla non fede. Essa sgorga dall’amore, dall’assillo di prendersi cura di coloro che non ci possono più essere estranei perché sono, o sono diventati, nostro prossimo. Di fronte al dolore del proprio figlio, la parola esprime un’incredulità credente. La paradossale risposta del padre appare più autentica di quella posta da Luca sulle labbra degli apostoli: «Aumenta la nostra fede». La fede non cresce per accumulo, va conservata povera e quindi capace di invocare che, cessato il mutismo, sgorghi di nuovo la parola della comunicazione. La fede può dirsi forte solo a motivo della propria debolezza. Fa parte della fede, sospinta dalla propria incredulità, il chiedere di essere aiutata nella sua povertà. Di fronte al figlio muto ed esposto alle più terribili minacce, il padre trova la fede a partire dalla propria non fede. Vi è un non credere che fa parte integrante della fede; è infatti solo attraverso di esso che è possibile combattere la lotta contro la propria idolatria. Situato in questo contesto, l’atto di risanare compiuto da Gesù è chiaramente espressione della sua stessa fede. Se i discepoli non hanno potuto guarire a causa della loro incredulità e Gesù invece risana, ciò significa che in lui è fortemente presente quanto nei suoi seguaci è invece assente: la fede. Ma, se ci pensiamo, è stata la poca fede dei discepoli a far sì che il padre si incontrasse direttamente con il Maestro. Vista in questa luce, l’incredulità dei suoi seguaci diviene, per paradosso, una via per sospingere altri fino a Gesù. Se i discepoli avessero guarito il fanciullo non ci sarebbe mai stato alcun dialogo tra Gesù e il padre del ragazzo. In un certo senso ciò vale per la testimonianza di tutti i credenti: quanto conta è far giungere gli altri a Gesù non a se stessi. Questo itinerario a volte può compiersi pure a motivo della scarsità della propria fede. La non fede, o la «poca fede» sono esperienze costitutive del credente e del discepolo. Affermare che tutto è possibile a chi crede fa sì che la non fede divenga componente interna all’atto di credere. L’aver alzato al massimo la forza e la portata della fede fa sì che l’incredulità sia presenza ineliminabile dell’esperienza del credente. Le ferite non sanate del mondo sono prova inconfutabile della nostra mancanza di fede. La non fede o la poca fede sono compagne fedelissime del credente. Tutto è possibile a chi crede. Ma cos’è la fede cristiana? Con la parola fede si definisce, generalmente, il fatto di credere nella verità e giustezza di concetti, dogmi o assunti in base alla sola convinzione personale o alla sola autorità di chi li ha enunciati, al di là dell’esistenza o meno di prove pro o contro di essi. In conformità con tale definizione, in ambito cristiano, aver fede significa credere vere le cose rivelate da Dio, non a causa della verità intrinseca delle cose stesse, ma per l’autorità di Dio. In questo senso, aver fede è accettare una serie di verità. E’, pertanto, essenzialmente, un atto intellettuale, rivestito della qualità di virtù. Aver fede vuol dire accettare verità che non possiamo conoscere perché non sono alla nostra portata; vuol dire, pertanto, credere in qualcosa di indimostrabile razionalmente, in qualcosa di incredibile, di assurdo. Una fede così sembra più una patologia mentale, che una virtù che meriti una qualche ricompensa. Ma, quando parliamo di fede, non intendiamo soltanto questo. Perché aver “fede in qualcuno” vuol dire “fidarsi" di qualcuno. Vuol dire “confidare”, aver “fiducia”, “affidarsi” ed “essere fedele” a colui nel quale abbiamo riposto la nostra fede. Secondo quest’altro significato, la fede cristiana non è essenzialmente un “atto intellettuale”, ma una “esperienza”, che ci porta a fidarci e ad essere fedeli non solo al messaggio di Gesù, ma, prima ancora, alla “persona” stessa di Gesù. Parlare di esperienza, di scelta significa che la fede cristiana non può prescindere dalla vita e dalla storia di “Gesù di Nazareth”. Ossia, la fede cristiana, prima che fedeltà alle “verità” insegnate da Gesù, è fedeltà alla “vita” da lui condotta. Ecco perché dire: «Sono credente», o meglio, «sono sul cammino lungo il quale cerco di diventare sempre più credente e sempre meno incredulo» è espressione molto più idonea che dichiarare «ho la fede», quasi si trattasse di un possesso. Anche affermare di aver perduto la fede risente troppo del linguaggio proprio della proprietà privata. Da tutto ciò risulta evidente che, per comprendere la fede cristiana, dobbiamo cominciare dalla fede di Gesù. E la fede di Gesù è quella in un Dio che non vuole la nostra divinizzazione, ma la nostra umanizzazione, che non ci chiede: “Siate santi come io sono santo”, ma “Siate misericordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36). Per questo, senza dubbio, Gesù si scontrò con la religione e i suoi dirigenti, con il tempio e i suoi sacerdoti. L’“umanità”, intesa come ciò che c’è di più nobile dentro di noi, l’umanità che supera la nostra disumanità, era qualcosa di tanto decisivo per Gesù che, per difenderla, ha pagato con la vita. Pertanto, la fede di Gesù è una fede che ci mette appieno in “questo mondo”. Essa non è un’esperienza che si riferisce a verità che trascendono questo mondo e hanno il loro centro nell’altro mondo, ma un’esperienza che si riferisce a qualcosa che si vive in questa vita. La fede, dunque, che è “fiducia”, “fedeltà”, non consiste, allora, in mere “credenze” intellettuali, ma nella fede che si dà a Gesù, fede che produce in noi le “convinzioni” più profonde e determinanti della nostra vita. Perché credere in Gesù, credere nell’evangelo, significa essere convinti che dobbiamo vivere come visse Gesù, rifiutando ciò che sappiamo rifiutò Gesù. Pertanto, la fede cristiana è, innanzitutto, fede nel Gesù che, secondo i vangeli, percorse le strade e i villaggi della Galilea e, alla fine, fu assassinato su una croce a Gerusalemme. La fede cristiana comincia dalla fede-fiducia-fedeltà che si dà a Gesù, alla vita che condusse Gesù, agli ideali e ai valori che ispirarono quella vita, sulla base dei quali “tutto è possibile a chi crede”. La possibilità è un orizzonte dato. La sfera del possibile ci travalica e trascende sempre; essa dice che la nostra fede è piccola. La fede comporta, allora, affidarsi a colui per cui ogni possibilità è effettivamente possibile. Questa stessa definizione consegna la fede a un ambito eminentemente pratico. Esso si esplica nella possibilità di modificare la realtà. La forza della fede si manifesta nelle parole di Gesù poste a commento di molte sue guarigioni: «…la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (Mc 5,34). Il risanamento dipende da un credere tutto collocato entro una dimensione pratica. Aver fede è essere dunque convinti sia che a Dio e solo a lui nulla è impossibile (cfr. Lc 1,37) sia che dal nostro credere dipenda il dischiudersi o meno di una determinata possibilità. Ma ciò costituisce nel contempo la massima sfida per il credente. La mancanza di fede si colloca allora in una fede che, lungi dal presentarsi come dono di Dio, si prospetta come un atto umano che cerca di forzare i confini del possibile. Nulla è impossibile a chi crede sarebbe espressione idolatrica se non fosse sorretta dalla presenza del non credere visto come momento intrinseco della vita di fede. Perché il credere sia davvero tale non vi  può essere alcuna simmetria tra «nulla è impossibile a Dio» e «tutto è possibile a chi crede». Si è sicuri della potenza del credere solo nel momento  in cui si afferma la propria impotenza e ci si affida ad Altri. Ripetere con il salmista e con Gesù in croce: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato» (Sal 22,2; Mc 15,34; Mt 27,46) è, prima di tutto, atto interno alla fede che dice al Signore il proprio abbandono. Scriveva Franz Kafka: «Chi non crede non vedrà mai un miracolo. Di giorno non si vedono le stelle».  Il credere è come una coltre oscura che avvolge le nostre vite. Ma è un’oscurità che vibra di presenza. Quanto la distingue dal suo opposto non è la mancanza del buio, ma il fatto che si tratta di un’oscurità capace di far vedere le stelle. L’unico vero miracolo è la fede stessa.   Violairis -www.chiesavaldesetrapani.com