Il primo a prendere la parola, nel nostro racconto, è Dio; Egli getta uno sguardo sull’uomo ed esprime una considerazione: «Non è bene che sia per se stesso». Dio nota un’incapacità nell’uomo, quella stessa che noi, oggi, siamo sempre meno in grado di scorgere: l’uomo non può essere il senso di se stesso; se la sua vita ruota esclusivamente intorno a sé, si svuota di significato. L’uomo non può vivere per sé: o, per meglio dire, può benissimo, lo constatiamo quotidianamente; ma che questo, poi, sia vivere davvero, è un altro discorso. Il fatto che la profonda, rassegnata solitudine, non quella salutare ed opportuna, ma quella contrassegnata dall’illusione dell’autosufficienza, sia la vera e propria «malattia dell’anima» del nostro Occidente, credo sia sotto gli occhi di tutti.
In questa pagina biblica, la silenziosa, inespressa constatazione di Dio vuole esprimerci quella che è la Sua più profonda convinzione su di noi: quella secondo cui siamo esseri votati alla relazione, che nei rapporti e dai rapporti traggono linfa, dolore, trasporto, disincanto; insomma, nel bene e nel male, senso, anche quando il senso viene ferito, poiché, se viene ferito, è perché, per qualche istante, ci era parso di avvertirlo. E quando ciò è avvenuto, per ciascuno di noi, è stato accanto a qualcuno.
Ma il Dio biblico, lo sappiamo, è un Dio estremamente pragmatico: per cui non si limita all’osservazione e passa all’azione. Il progetto, almeno nelle intenzioni, è chiaro: «Farò – dice Dio – a lui un aiuto». Inutile dire che, se ci fermassimo a questa sola espressione, le possibilità di interpretarla in maniera fuorviante si sprecano: e lo abbiamo visto nell’arco della storia umana in generale e in quella delle chiese in particolare, che certo non hanno brillato per il riconoscimento di una piena parità di diritti tra donne e uomini. Il termine «aiuto» può difatti essere associato all’idea di «funzionale a», per cui la donna sarebbe vista come una sorta di complemento dell’uomo, in tutto e per tutto rivolta a lui ed alle sue necessità. Invece, il nostro testo prosegue, specificando: «Come di fronte a lui». Di questa bellissima espressione, vorrei sottolineare due aspetti.
Il primo di essi riguarda la sua traduzione letterale, che potremmo rendere con: «di contro a lui». Insomma, l’aiuto, secondo il testo biblico, è costituito dalla presenza di qualcuno che ha la facoltà di venirci contro, di contrariarci, di contraddirci, di resisterci: e, lo sappiamo per esperienza, spesso si tratta dell’aiuto più prezioso, che non di rado viene da quella stima sincera che è il contrario dell’adulazione.
La donna è possibilità data all’uomo di confrontarsi, di fare i conti con qualcuno, in modo serio, autentico, spassionato. Capita sovente che l’uomo non ne abbia la volontà: ma la donna è lì a richiamarlo a questo compito, attraverso il quale, soltanto, all’uomo è offerta l’opportunità di maturare, di prendere consapevolezza, di cambiare.
Il secondo aspetto riguarda il fatto che l’uomo e la donna nascono nel proposito di Dio per starsi di fronte: questa è la posizione che, più sovente, dovrebbero occupare l’uno nei confronti dell’altra, poiché questa è anche la posizione della reciprocità, quella che consente loro di guardarsi e, pertanto, di incontrarsi e di riconoscersi. Starsi contro, starsi di fronte: queste le due posizioni che caratterizzano ogni relazione, perché consentono alle due persone che la vivono e la costruiscono di non inglobare mai l’altro, di mantenerlo nella sua individualità, nella sua differenza. Difatti, proseguirà il testo, i due saranno una sola carne, sì, ma non una sola mente o un solo spirito: in questo dovranno rimanere distinti, per rendere possibile, ogni volta, l’incontro e il confronto, il dialogo e la distanza, l’intimità e l’estraneità, la conoscenza e la scoperta. Non assorbire l’altro, non assimilarlo a sé, ciò che spesso è il segreto desiderio di possesso che si nasconde dietro l’amore, è condizione indispensabile al mantenimento di un rapporto, che sussiste soltanto se i due rimangono due.
Per realizzare il suo proposito Dio, dice il nostro testo, fa scendere un torpore sull’uomo: mi piace pensare che la donna nasca dalla dimensione segreta e sconfinata del sogno, da quello che è, per ciascuno, il luogo di confine della coscienza, lo spazio del desiderio, l’ambito in cui la ragione vigile smette, per un istante, di sorvegliare.
Su questa soglia meravigliosa e sconosciuta si affaccia la donna nella vita dell’uomo e viene a interromperne la presuntuosa lucidità, a produrre quel disorientamento della mente e dei sensi che si rivelerà in grado di riorientare i passi dell’uomo. Questo è l’amata per ogni uomo: sbandamento della coscienza, timido affacciarsi sull’uscio del sogno che permette di abbandonare il mondo scontato e arido delle cause e degli effetti, per gettare chi ama nel mare burrascoso delle emozioni. Di questo mondo ulteriore, ogni donna è per l’uomo promessa e scoperta.
Calato il torpore sugli occhi, Dio estrae la nuova creatura dal fianco dell’uomo: perché questa è la posizione che le spetta ogniqualvolta i due non si troveranno di fronte l’uno all’altra; in questo caso, donna e uomo cammineranno fianco a fianco, senza che nessuno sopravanzi l’altro.
«Colei che sta accanto» è avvertita dall’uomo come una parte mancante di sé, ossa dalle proprie ossa, carne dalla propria carne; ed il trasporto verso di lei sarà tale da creare un laccio più forte del sangue, al contempo tenace e fragile: l’amore. I due lo vivranno standosi accanto e di fronte, posizioni che è faticoso apprendere e, ancor più, mantenere: ma, se teso oltre questa vicinanza e questa reciprocità, il laccio si spezza. Per questo ogni amore è chiamato ad averne cura, a preservare la distanza senza annullarla o accrescerla eccessivamente, prestando attenzione a che non diventi estraneità o sopraffazione.
Un ultimo aspetto dell’amore è richiamato con tenerezza dal nostro testo: donna e uomo, difatti, stanno nudi l’uno alla presenza dell’altra.
Mi piace scorgervi un richiamo alla trasparenza, alla limpidezza.
Anch’essa è resa possibile dalla reciprocità che libera dagli imbarazzi, dagli sguardi esitanti, dal vederci costretti a mentire per non mostrarci così come siamo. Conoscerci è riacquistare nudità, cammino di spoliazione che nulla meglio dell’amore è in grado di insegnarci. Amore, infatti, narra un altro splendido mito, quello contenuto nel Fedro di Platone, è figlio di
mancanza. Siamo esseri mancanti, incompleti e conosciamo l’amore per sottrazione, per ferita nella carne che sta lì a ricordarci la traccia di un’assenza. Ricerchiamo l’amore come dono di nudità, unica via che, attraverso l’incontro con l’altra, è capace di ricondurci sino a noi stessi.
E questa è anche la strada che, ogni giorno, ci invita a percorrere il Nostro Dio che, come ci ricordano le Scritture che anche oggi abbiamo provato ad ascoltare e a meditare, è un Dio che ci sospinge a imparare l’Amore nell’imperfetta, difficile bellezza delle nostre relazioni.
Trapani, Domenica 4 Dicembre 2011 - Pastore
Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com