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02/01/2012 11:48:52

Pregare nel segreto del cuore

Non è poi così difficile: del resto so che ne uscirò, che quella porta che ho chiuso alle mie spalle andrò poi a riaprirla, per tornare ad essere travolto dal vortice inarrestabile dei giorni e degli anni, che d’improvviso mi accorgo essere scivolati tra le mie dita come sabbia in una clessidra. Non solo non mi risulta difficile: sento la necessità di tenere per qualche attimo il mondo e la sua frenesia fuori da quella porta. Stare da solo dinanzi al Padre e di fronte a me stesso è un bisogno, il respiro che ho necessità di prendere prima di tornare, inevitabilmente, ad immergermi in quella quotidianità che, non di rado, mi travolge. Sto bene in questo spazio tutto mio: ne difendo l’inviolabilità, imparo un poco a conoscermi e a riconoscermi. Lascio che il suono di una parola o il ricordo di un’emozione si imprimano più in profondità e si propaghino, sino a sentirmi un tutt’uno con loro e con quel Dio che me le ha regalate. C’è una solitudine che è sana: consente di non muoversi perennemente sulla superficie degli avvenimenti e dei sentimenti, consente di avventurarsi nelle profondità, che sono un luogo oscuro, sì, ma in grado di rivelarci molto di noi stessi e della vita quando proviamo ad illuminarle anche solo timidamente. E questo ci è possibile farlo negli istanti che, con una splendida parola del nostro ricco italiano, chiamiamo di raccoglimento: quelli in cui ci ripieghiamo su di noi, come il fiore sul far della sera, e assumiamo nell’animo quella posizione fetale da cui ha avuto inizio la nostra vita. E non è un caso che dal raccoglimento provenga il frutto, il raccolto, la provvista con cui tornare ad affrontare la vita: quella vita che poi è l’unica compagna che, insieme con Dio, non possiamo mai lasciare fuori dalla porta della nostra intimità.   Credo che sia vero che una donna, un uomo, si possano riconoscere davvero soltanto nel segreto, quando lo sguardo vigile di chi costantemente giudica e stabilisce valori e vergogne non può raggiungerci, quando gli unici occhi posati sulla nostra nudità sono quelli di Dio e della nostra sempre miope coscienza. Ecco perché Gesù ci invita ad abitare questi spazi di nascondimento che, non a caso, sono anche spazi di rivelazione, di autenticità; di sgomento, certo, ma, anche, di sorpresa. L’ipocrita non ha familiarità con questi ambienti: li diserta volutamente, perché lo costringerebbero a deporre quella maschera che indossa sempre, con tale frequenza da non potere più smetterla, con tale assiduità da non riuscire più a riconoscere il proprio volto nello specchio opaco dell’anima. Il rischio dell’ipocrisia è sempre in agguato per ciascuna e ciascuno di noi: non siamo mai al riparo dalla tentazione di esibire di noi soltanto la maschera, la patina lucida ed inespressiva che la quotidianità ci spinge ad indossare. Quando, del resto, tutto ciò che interessa è quanto appare, quanto è possibile mostrare - pur fingendo - non è facile sottrarsi: proprio per il fatto che incontrare un volto autentico sembra interessare pochi e sempre meno sembrano essere quelli in grado di scorgerlo sotto strati e strati di trucco. Nel segreto del cuore, invece, la maschera non serve: a meno che non si intenda fingere anche dinanzi a se stessi, continuare la recita perché ormai non siamo più in grado di riconoscere il nostro vero volto, o almeno uno dei tanti che compongono il variopinto mosaico del nostro «io». Mentre l’ipocrita si mostra, infatti, chi cerca di comprendere e di conoscersi riflette: mentre chi finge sta eternamente in vetrina, chi intraprende il sentiero scosceso dell’autenticità si trova a dover fare i conti con uno specchio che non rimanda mai indietro l’immagine desiderata. Noi cambiamo continuamente e riuscire a star dietro al cambiamento che siamo rappresenta il compito di una vita realmente vissuta e non appena guardata distrattamente e con una sorta di imbarazzo, quasi non fosse la nostra. Ma per poterlo fare, per avere un’idea sia pur vaga di ciò che in noi incessantemente si muove e ci trasforma, dobbiamo riappropriarci del bene più prezioso, che così spesso ci lasciamo sottrarre, come se ne avessimo in sovrabbondanza: il tempo, quello che scorre inarrestabile senza che ci sia possibile trattenerlo, quello che con il suo corso,  come un fiume, fa di noi il paesaggio che, lentamente, diventiamo; nel corpo, attraversato dai solchi delle rughe, come nell’animo, giardino rigoglioso o arida steppa a seconda di quanto tempo avremo dedicato a coltivarlo. La sensibilità, difatti, non è un’erba spontanea: se non la innaffiamo con regolarità, se non zappiamo tutt’intorno a lei il terreno da cui essa trae nutrimento, inevitabilmente avvizzisce. Senza preservare un momento al dialogo intimo tra noi e Dio, quello stesso che ci obbliga a stare ogni tanto di fronte a noi stessi, appassiamo e ci ritroviamo soltanto con sensibilità sterili e rattrappite. Di questo soltanto dispone, mediamente, chi vive con la costante preoccupazione di mostrarsi agli occhi degli altri, di dar a vedere ciò che non è, ma che comunque impressiona: e in questo, dice Gesù, avrà la sua ricompensa. Ovvero? In che cosa consiste la ricompensa a cui fa riferimento Gesù? In questi stessi sguardi vuoti, credo, nei commenti finto-estasiati che essi generano, nella loro fugace vacuità che, non a caso, viene definita vanità poiché, in verità, è vana, ovverosia illusoria, inutile. Altra, invece, è la ricompensa promessa a chi con Dio e con sé si incontra nel segreto: anche qui siamo chiamati all’intelligenza del testo, perché Gesù non ci dice espressamente in che cosa tale ricompensa consista. Per averne un’idea sia pur vaga, bisogna sperimentare il raccoglimento, l’incontro intimo e silenzioso col Padre. Dai miei tentativi maldestri, credo di aver vagamente intuito, più che compreso, che questa ricompensa risiede nella serenità, in quella indefinibile sensazione di pace che, al termine di ognuno di questi incontri, mi pervade. Per qualche istante sembra che il silenzio del cuore sia anche quello del mondo che torna ad accogliermi, mentre io torno ad accoglierlo. Poi il ritmo sempre troppo accelerato della quotidianità torna a prevalere e rimane in me come la traccia di un’assenza, una sorta di nostalgia. E allora mi fermo un istante ed attendo che un altro silenzio, un’altra solitudine, tornino a scandire il respiro dei giorni e degli anni.   [Trapani, Domenica I Gennaio 2012 - Pastore Alessandro Esposito] - www.chiesavaldesetrapani.com