Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
20/01/2012 08:50:33

A scuola di diritto da Isaia

È per questo motivo che una delle parole più ricorrenti nel vocabolario di Isaia è diritto: e non si tratta mai di un diritto qualsiasi, generalizzato e, per ciò stesso, inefficace; Isaia – e Dio attraverso il suo annuncio – parla del diritto degli umili. L’ebraico, lingua dei profeti d’Israele, custodisce sempre nel suo seno significati che ci aiutano a  comprendere un testo più in profondità. In italiano traduciamo con diritto il termine ebraico mishpat che, con ogni probabilità, ci dicono i filologi, proviene dalla parola mishpahah che significa, anzitutto, famiglia: ad indicare il fatto che, nell’amministrazione del diritto, un popolo deve essere considerato come un’unica, grande compagine. Ma l’accezione è, in realtà, ancora più vasta e corrisponde alla propensione «universalistica» che, normalmente, gli esegeti sono inclini a riconoscere al linguaggio di Isaia: oltre che con «famiglia» mishpahah può essere reso con specie, intendendo, con ciò, la più vasta «famiglia umana». All’interno di quest’ultima, ciascuno deve beneficiare dei medesimi diritti e chi amministra la giustizia deve badare a che tale diritto non venga violato o calpestato. Ma chi è chiamato ad amministrare la giustizia?
Vi sono due soggetti principali: da un lato coloro che, specificamente, vengono investiti di questa che è una responsabilità e non, come spesso viene inteso, un privilegio. Inutile dire che, sovente, le persone designate per ricoprire tale incarico vengono meno a tale responsabilità, interpretando una funzione di servizio come ruolo di potere. In tal caso è chiamato ad intervenire l’altro soggetto: l’uomo e la donna comune che, constatata l’ingiustizia, hanno il dovere di denunciarla e di ristabilire il diritto.

Anche in questo caso è inutile dire che sono assai pochi coloro che decidono di assumersi un compito tanto ingrato, che espone chi lo assume a critiche e persecuzioni. Di qui nascono le voci profetiche, le vocazioni delle donne e degli uomini che comprendono che rispondere a Dio significa anzitutto opporsi alla violazione del diritto perpetrata dai potenti ai danni dei diseredati di questa terra. Ecco perché Isaia sottolinea a più riprese il fatto che il diritto che più sta a cuore a Dio è quello degli umili: la parola che il profeta utilizza è anî che, propriamente, significa piegato, curvo. Dunque, più che degli umili, si tratta degli umiliati, di coloro che dei potenti subiscono le vessazioni e lo sfruttamento, nei corpi come negli animi e che per ciò hanno entrambe, corpo ed animo, ricurvi. In questa prostrazione in cui giacciono, il loro sguardo è impossibilitato a levarsi per scorgere orizzonti diversi, possibilità nuove. Perché ciò avvenga, siamo chiamati a divenire comunità profetica, che denuncia il sopruso e ristabilisce il diritto.
Dio chiede a noi di farlo: Egli è tutt’altro che indifferente al grido degli oppressi; ma per agire si affida a noi, perché sa che, altrimenti, l’uomo e la donna a Sua immagine e somiglianza non saranno se non l’illusione del Suo desiderio incompiuto. Solo la sensibilità al grido dell’oppresso può umanizzarci: senza questa capacità di vibrare percossi dal dolore dell’altro, capacità che solo il cuore (parola che viene da cordis: «corda») può sviluppare, saremo noi a rimanere ricurvi, ripiegati su quell’autoreferenzialità che è il marchio della nostra società dell’opulenza.

 Alessandro Esposito - da 'Riforma' del 19 gen 2012 - www.chiesavaldesetrapani.com