Però non è meno certo che Paolo intende la fede come “la fede di Abramo.”
Non sappiamo se Paolo abbia mai incontrato di persona Gesù o abbia assistito alla sua predicazione. Gli oscuri accenni presenti nelle sue lettere tendono tuttavia a escluderlo. Il problema è allora che Paolo, con ogni probabilità, non conobbe il Gesù terreno, il Gesù umano. A lui “apparve” il Risorto, sul quale sembra concentrare tutta la sua attenzione, tanto da arrivare a confessare, nella seconda Lettera ai Corinzi, che la conoscenza del cristo “secondo la carne” non gli interessa (2 Cor 5, 16), un’affermazione dura che, per quanto si tenti di mitigare, in definitiva viene a dire che l’esistenza terrena di Gesù non rientrava nell’ambito delle sue preoccupazioni. Dunque, è a partire dall’idea di Dio, che aveva ogni buon israelita, che Paolo spiega Gesù. Ed è precisamente a partire da questo Dio, che egli pensa di aver conosciuto Gesù:
“Quando a Colui che mi separò dal seno di mia madre e mi chiamò per sua grazia, piacque di rivelare in me suo figlio, affinché lo annunciassi tra i gentili...” (Gal 1, 15-16). Ciò vuol dire che nella teologia di Paolo, il punto di partenza del cristianesimo non è
Gesù, ma il
Signore esaltato secondo il Dio della tradizione israelita. Cosa che, in ultima istanza, significa che la cristologia di Paolo parte da una convinzione determinante: noi non conosciamo
Dio a partire da Gesù, ma conosciamo
Gesù a partire da Dio. Pertanto, non è Gesù quello che ci spiega Dio, ma è Dio quello che ci spiega chi è Gesù. Per Paolo, quindi, quello che il cristiano deve dare per conosciuto è Dio, mentre lo sconosciuto è Gesù. Detto in altra maniera, la cristologia di Paolo non modifica sostanzialmente la tradizionale conoscenza di Dio che poteva avere qualunque israelita o anche qualunque credente in Dio. Perché il problema religioso fondamentale, per Paolo, non sta nello spiegare Dio, ma nel conoscere e comprendere Gesù. Ne deriva che, nella mentalità di Paolo, il cristianesimo è – come lo fu il giudaismo – una religione che si spiega come un tentativo di cercare la
“relazione” dell’uomo con Dio, non il progetto di realizzare l’
“unione” dell’uomo con Dio. Dal momento che Paolo non conobbe il Gesù terreno, di
condizione umana, dato che conobbe solamente il Signore glorioso, di
condizione divina, da questo momento Paolo si vide enormemente in difficoltà per intendere Gesù e, in ultima istanza, per intendere Dio, il Dio che ci si è rivelato in Gesù. Il Dio di Gesù può essere conosciuto soltanto a partire dall’incarnazione di Dio in Gesù. Ebbene, se Paolo non ebbe chiara questa unione di Dio con l’uomo, con l’uomo Gesù di Nazareth, è ovvio che le sue asserzioni cristologiche scivolino con frequenza nell’enigma. E a volte sprofondino nel mistero. Ciò spiega perché la cristologia di Paolo rappresenti una difficoltà per intendere la cristologia soprattutto dei sinottici. A questo proposito, c’è da considerare che, secondo gli studiosi, le lettere di Paolo furono scritte tra gli anni 50–57, mentre i vangeli sinottici non apparvero prima dell’anno 70. Ciò vuol dire che, nella chiesa nascente, si diffusero le riflessioni di Paolo, sul
Cristo glorioso, una ventina d’anni prima dei racconti dei vangeli sinottici, sul
Gesù terreno. Ossia, nella chiesa del cristianesimo nascente si conobbe molto prima la
“condizione divina” del Cristo risorto che la
“condizione umana” del Gesù storico.
Si è detto, ben a ragione, che, grazie a Paolo, la missione cristiana ai gentili ottenne un esito sensazionale in tutto l’impero. Perché fu per mezzo di Paolo che si arrivò a un’autentica
inculturazione del messaggio cristiano nel mondo di cultura ellenistica. In sostanza, fu Paolo colui che riuscì a fare del cristianesimo una religione universale dell’umanità. E senza dubbio fu merito di Paolo aver tolto il messaggio cristiano dalla particolarità del giudaismo, per espanderlo alla universalità del cristianesimo. Però raggiunse questo al prezzo di “evitare il radicalismo” che si osserva e si esprime con forza in non pochi testi dei vangeli. Il problema sta nel fatto che la cristologia di Paolo ha il suo punto di partenza – e la sua chiave d’interpretazione – nel
Cristo risorto. Dal momento che Paolo non conobbe il
Gesù di questo mondo, ma il
Signore dell’altro mondo, da questo momento, egli non si sentì vincolato a una storia concreta, né condizionato da fatti sufficientemente precisi, che erano presenti nel ricordo degli altri apostoli e che non potevano esserlo nella stessa maniera in Paolo. Paolo si sentì associato a un’esperienza interiore, a un’esperienza trascendente, che, precisamente perché trascende tutti, per ciò stesso si presta con più facilità a essere recepita universalmente. In ultima istanza, ciò significa che fu precisamente la cristologia di Paolo il principio teologico a partire dal quale risultò possibile l’universalizzazione del cristianesimo. Però questa
universalizzazione fu possibile perché l’esperienza, che Paolo ebbe di Gesù, si elaborò a partire da uno
spostamento, e precisamente, dallo spostamento dal Gesù terreno al Signore glorificato. Il Signore “trascendente” di Paolo poteva essere visto senza speciale difficoltà come il Signore “universale”. Il problema sta nel fatto che questa “universalità” si è raggiunta a costo di sfumare o anche di diluire l’“umanità” che si palpa nel Gesù dei vangeli. Prescindendo dall’
incarnazione di Dio in Gesù e fissandosi fondamentalmente sulla
glorificazione di Gesù in Dio, il cristianesimo guadagnò in
trascendenza e
universalità quello che perse in
immanenza e
umanità. Per questo si comprende che l’esperienza cristiana sia presentata da Paolo come una tensione che ha il suo centro nel cielo e non nella terra. Nella teologia di Paolo, la fede si relaziona direttamente con “il religioso” e con “il trascendente”. Perché è fede nella “giustificazione” che Dio concede al peccatore. Cosa che spiega perché il peccato, come potere di perdizione, appare al centro del pensiero di Paolo. Ne consegue che la fede, secondo l’apostolo Paolo, è intimamente relazionata con il mistero della “salvezza” definitiva realizzata da Dio mediante Gesù cristo, salvezza cui l’essere umano partecipa per la “giustificazione” che l’uomo raggiunge per la sua fede. Questo spiega perché la fede ci si presenta, negli scritti di Paolo, quasi sempre in connessione con la “giustificazione” che Dio concede all’uomo peccatore (cfr. Rom; Gal; Ef). Come spiega ugualmente che la fede non si intende a partire da situazioni concrete della vita quotidiana, ma avendo come modello Abramo che credette in Dio, di modo che fu questo che gli servì come “giustificazione” o riabilitazione per ciò di cui si sentiva colpevole. (cfr. Gen 15, 6; Rom 4, 1-5). Per questo, nella mentalità di Paolo, il padre o modello di tutti i credenti è precisamente Abramo (Rom 4, 16-17). E se mettiamo in relazione questa fede con Gesù, Paolo l’intende come fede nel cristo o nel figlio di Dio, “che mi amò e morì per me”. Cosa che suppone che vivere la fede significhi mantenere la condizione di “uomo giustificato” fino alla fine, fino a raggiungere il successo della speranza definitiva (Gal 5, 5). Com’è logico, la prima cosa che viene da pensare, è che tutto questo linguaggio è l’espressione di un pensiero, certamente, profondamente religioso, spirituale, elevatissimo. Però, per ciò stesso, un pensiero e un linguaggio strano, che nemmeno gli esperti in teologia arrivano a comprendere pienamente. E poco comprensibile anche per la grande maggioranza della gente normale, che ha anche il diritto di capire e di vivere la sua fede in Dio e in Gesù cristo. Naturalmente, studiando il significato della fede cristiana, nel complesso del Nuovo Testamento, una delle cose che più richiamano l’attenzione è il contrasto che subito si avverte tra il linguaggio e la mentalità di Paolo, da un lato, e il linguaggio e la mentalità dei vangeli sinottici, dall’altro. In effetti, mentre per Paolo la fede è un’esperienza che esprime il vincolo del credente con “il religioso” e “il trascendente”, per Gesù (così come lo presentano i sinottici), la fede è un’esperienza che esprime il legame del credente con “l’umano” e l’immanente, con l’”umanità” e con questa vita. Quando Gesù parla della fede, si riferisce ovviamente alla fiducia e alla convinzione da parte di coloro che soffrono, degli esclusi e disprezzati, di trovare precisamente in Gesù il rimedio alle loro pene e, in generale, alla durezza che di frequente la vita riserva ai comuni mortali. Infine, se parliamo della relazione tra “fede” e “religione”, è chiaro che Paolo intende la fede come la risposta del credente al
kerygma, la predicazione cristiana, come nel noto testo di 1 Cor 15, 1-18, dove Paolo insiste sul fatto che la fede non è che l’accettazione del messaggio annunziato, nel quale la resurrezione occupa il posto centrale. Nei vangeli, invece, la fede non ha nulla a che vedere con un corpo di dottrina previamente accettato. Per questo Gesù elogia la fede di persone che non erano neppure israelite, né pertanto potevano avere le stesse “credenze” religiose di un giudeo praticante. E’ il caso del centurione romano (Mt 8, 5-13 ), della donna cananea (Mt 15, 21-28) o del lebbroso samaritano, che, essendo un dissidente dalla religione “ufficiale”, è elogiato precisamente per la sua fede (Lc 17, 19). E’ chiaro, pertanto, che Paolo vede la fede come un
atto religioso e trascendente, mentre Gesù (secondo i sinottici) intende la fede come un’
esperienza umana, che non dipende né dall’ortodossia o rettitudine delle credenze, né dalla condizione di persona giusta o peccatrice, né dalla ricerca della salvezza che sfugge al giudizio e alla condanna di Dio. Si tratta, dunque, di due modi di intendere la fede che si vedono, non solo come esperienze distinte, ma soprattutto contrapposte. Stiamo, allora, davanti a due modi di sperimentare il problema di Dio, e la relazione con Lui, che non si limitano al problema concreto della fede, ma anche a quello della
salvezza e del
peccato.
Paolo presenta il Cristo unito inseparabilmente alla salvezza. Il Cristo è, prima di tutto, il “Salvatore” (Fl 3, 20). La “salvezza” ci viene per mezzo di Gesù cristo. Questo indica che l’
azione salvatrice del Cristo è costitutiva dell’
essere del Cristo. Ma questo pone due problemi. Prima di tutto, dato che Paolo intende la salvezza specificamente come salvezza eterna e trascendente, esiste il pericolo di situare il centro costitutivo della cristologia, non in questo mondo, ma nell’altro mondo; non nella storia, ma nell’eternità. Pertanto, non nei problemi della terra ma nelle speranze del cielo. Con la conseguenza che la nostra comprensione di Gesù resterebbe spostata da questa nostra vita. E così è come in realtà molta gente vede Gesù: come un essere celestiale e divino, e molto meno (o per nulla) come un essere di questo mondo, il quale dovette superare le difficoltà di questo mondo; e godere delle gioie che sono proprie della nostra condizione umana. Il secondo problema sta nel fatto che, se il Cristo ci ha salvati mediante la sua passione e morte, “morendo per noi secondo le Scritture” (1 Cor 15, 3), ciò equivale a dire che Gesù fu un uomo programmato da Dio per soffrire, una vittima dell’inesorabile decisione di un Dio giustiziere.
Violairis - 17 feb 2012 - da www.chiesavaldesetrapani.com