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26/02/2012 17:43:13

L’illuminismo libertino di Sade républicain

Di questo primo libro, dedicato al pensiero politico di Donatien Alphonse François de Sade – la penna della più “sfrenata immaginazione erotica” (p. 21); lo scrittore accusato (solo a causa dei suoi libri) di “empietà, oscenità e perversione” (p. 25) e proposto dallo zio abate per l’internamento in manicomio” (p. 20) perché segnalato come pazzo –, l’autore è anche lo stesso Lanuzza.

I prossimi volumi della collana fiabesca MaledettiMaledetti, diretta dal critico Stefano Lanuzza,  sono quelli che riguardano Lou Salomè, Verlaine, Rimbaud, Nietzsche, Campana.

L’opera Français, encore un effort si vous voulez être républicains, curata dal nostro curatore – scrittore  e critico  già provato per il suo interesse verso le figure eretiche e le scritture demistificanti (ricordiamo Louis-Ferdinand Céline, l’altro grande maledetto del Novecento ripescato e pubblicato sempre con Stampa Alternativa) –, immette il lettore nella trama del  “Quinto dialogo” del pensiero filosofico-politico del Marchese de Sade (il testo si trova raccolto nella Philosophie dans le boudoir) e lo obbliga a “misurarsi” con le sue argomentazioni prospettiche.

I ragionamenti (pensati dialogicamente, ci pare) di Sade – che si “proclama repubblicano e sembra professare un sorta di comunismo estremo” (p. 23) – si aggirano infatti sul rinnovamento etico e civile francese sulla base di poche leggi (semplici ed essenziali) e una regolamentazione pratico-giuridica corrispondente. In ciò si nota la tensione del Marchese e il desiderio di contemperare la prassi socio-politico-giuridica della nuova società borghese (nata dalla rivoluzione francese e da lui agognata) con i vizi, le virtù della filosofia senso-naturalistica e la felicità materiale immanente che egli riconosce come propellente intellettuale-immaginativo proprio.

De Sade, dalla prigione-manicomio, infatti scriveva alla moglie: “ Sì, sono un libertino, lo riconosco: ho concepito tutto quanto può concepirsi in tale ambito, ma certamente non ho fatto tutto quello che ho immaginato e di certo non lo farò mai. Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino” (p. 5).

Calunnia, furto, libertinaggio, prostituzione e  pratica mercenaria sono gli altri luoghi di invito alla riflessione sui “costumi” che, insieme alla vita e alle altre opere (indicate) del libertino, il lettore, spulciando i titoli e l’indice analitico del libro, troverà “Nel Boudoir del Gran Maledetto”.

Per le pratiche dell’ingaggio (si direbbe oggi) di truppe mercenarie, dell’adulazione cortigiana e pretaiola di laici e religiosi e degli abusi di potere (sembra essere in una società berlusconiana ante litteram), nel libro, il lettore si trova a leggere pure la “Lettera – scritta da Sade – di un cittadino di Parigi al re dei Francesi” .

È la lettera in cui si accusa il re di aver rotto il “Patto federativo” (p. 124) con il popolo, il solo sovrano. Nel testo della lettera, accusato di tradimento, è anche invitato a ravvedersi e a lottare contro i pregiudizi e gli abusi senza indugi. Una presa di posizione netta e decisa  in nome di quella libertà ed eguaglianza conquistata dal popolo e degna di tutti i cittadini. I protagonisti e gli attori diretti che hanno fatto la grandezza della Nazione francese, e dato esempio perché gli altri popoli,  oppressi dal dispotismo e dalla tirannide, ne seguissero la via e il fine.

“Quale differenza, Sire! Che la vostra sensibilità la percepisca. Preferite perciò questo modo di regnare a quello dovuto soltanto al caso; preferite i preziosi sentimenti di questa nazione, che apprezzandovi dovrà amarvi, ai consigli meschini e politici dei cortigiani corrotti che vi circondano e dei preti fanatici che vi seducono”(p. 130).

La religione e i preti. Un altro versante che Donatien de Sade demistifica e svuota di valore con l’ironia del sarcasmo. La sua regola preferita rispetto alla morte o alla pena di altre violenze gratuite quanto inefficaci.

Di fronte all’“incoerenza” e alla necessità di modifica dei comportamenti, tuttavia, continua il “grande maledetto”, “io non propongo massacri né deportazioni: tutti questi orrori sono lontani dalla mia anima perché io possa osare di concepirli per un minuto. [...] queste atrocità vanno bene per i re e per gli scellerati che li imitano”(p. 54).

Come si vede, la praxis che de Sade mette in moto è la freddezza dell’ironia dura, tagliente ed efficace quanto può essere quella che invece assume le vesti del sarcasmo e del ridicolo per le incisive e profonde lacerazioni che provoca nel tessuto ideo-comportamentale dei “costumi” reificati delle masse e dei suoi mediatori e/o apparati confessionali ideologici.

Così Donatien Alphonse François de Sade ci si presenta con la ghigliottina della risata disarmante e combattiva. La risata salutare che ogni “repubblicano”, storicamente laico, non dovrebbe mai abbandonare come arma critica e autocritica di fronte alle acrobazie dell’immaginazione e del potere noetico. Anzi dovrebbe privilegiarla e metterla in pratica esecuzione, permanentemente. Donatien, infatti, scrive: condanniamo “ad essere deriso, ridicolizzato, coperto di fango in tutte le piazze [...] il primo di questi benedetti ciarlatani che verrà ancora a parlare di Dio e della religione” (p. 55). Non massacri né deportazione dunque, pensa/immagina e scrive de Sade, ma la satira feroce e demistificatrice: “Usiamo la forza solo contro gli idoli. Non occorre che il ridicolo per chi li serve: i sarcasmi di Giuliano nocquero alla religione cristiana più di tutti i supplizi di Nerone” (p. 54).

Provocatorio e stimolante per la riflessione adrenalinica altresì è il suo discorso sul diritto che deve regolare la “proprietà” di ciascuno alla sessualità felice e al godimento disinibito e libertino nella società della “gaia scienza” razionale; la società per cui il popolo della rivoluzione ha dedicato mente e corpi onde ciascuno non fosse più condannato per le sue libere e convinte scelte di vita individuale e collettiva. Quelle scelte immaginativo-intellettuali che prima di tutto mettono in subbuglio le strutture archetipiche dell’immaginario antropologico coltivato ad hoc.

Il “BenedettoMaledetto” Marchese, infatti, così scrive: “qui si tratta solo del godimento e non della proprietà. Non ho nessun diritto alla proprietà di una fontana che incontro sul mio cammino, ma ho dei sicuri diritti al suo godimento: ho diritto di profittare dell’acqua limpida offerta alla mia sete” (pp. 80-81).

Secondo il “divino”, infatti, la costruzione sociale (quale “necessaria” connessione con la filosofia naturalistica delle pulsioni) nelle sue declinazioni politico-artificiali e innovativo-de-formanti, nonché contrastanti con l’immaginario etico-religioso e politico ossificato del vecchio e nuovo ordine, non può e non deve più giocare a nascondino, o dietro il paravento dei pregiudizi e delle violenze del potere che ossifica la propria egemonia di classe-di-diritto o di legittimo potere come comando e abuso nato da un asimmetrico rapporto di forze tra dominati e dominanti.

 Del resto non bisogna dimenticare che per un Pascal il “diritto” è stato il primo atto di violenza che di fatto si è imposto come “ragione” che ha sopraffatto la ragione contraria, e che la scomoda assunzione della “crudeltà” libertina del divino Marchese non è esorcizzabile con i moralismi del comodino ideologico e moralizzatore egemone.