Questa Repubblica Italiana fondata sul lavoro (nero) è solo
la versione aggiornata dell’eterno Stato della Chiesa.
Mario Lunetta (Liber veritatis)
Il presente talmente onnipresente ha ucciso il futuro.
Rimane l’illusione di essere presenti. Anche in un futuro che non c’è.
Velio Carratoni (“Fermenti”, n. 237/2011)
Non può consolarci pensare che tutto sia
inevitabile solo perché, or, vivere è inevitabile
Stefano Lanuzza (Disiecta membra)
Se è vero che il sonno della ragione (Goya) quanto la lucidità (Deleuze) producono mostri, è altrettanto vero ed indubitabile che in questo mare della tranquillità simbolica così mosso c’è chi, attivo parassita, vi si specchia e pesca nel torbido con sguardi altrettanto torbidi e inquinanti e diffusi come i monatti della critica e delle pratiche significanti conflittuali. i becchini ovvero delle voci (scritte, orali, iconiche, sonore, miste...) delle posizioni laterali. Insomma di chi si mette di traverso!
Sono gli occhi della convenzionalità benpensante del paese dei bassotti italiani che vi sguazzano come gli acidi e le ventose dei celenterati tra fughe e attacchi devianti. Una strategia tesa a rendere cieca la materia sociale, lì dove il suo destino è quello appunto di vedere solo in quanto lontano dall’equilibrio (termodinamica del non-equilibrio).
Sono più che l’occhio del “grande fratello”; sono il corpo dei celenterati (meduse e polipi mimetici) che – filamentosi e tentacolari foto-cromatici o camaleontici in continua dissolvenza e metamorfosi – emergono dalle profondità limacciose del nuovo “Impero”, spargendo secrezioni di oscurantismo micidiale programmate ad libitum e colorate sui palinsesti del pubblico rincoglionimento e gaudenti, ossequianti.
Sono cioè la presenza del diagramma di un cardio-encefalo-gramma piatto e cieco come la materia sottratta agli squilibri. L’entropia acefalizzante cara all’ordine costituito (politico, religioso, accademico) che, con i suoi cloni (sani portatori di indifferenziata equivalenza), sguazza i sudditi della società immateriale nell’intrattenimento universalizzato e, a proprio agio stanziale, qui li lascia naufragare come in un tonico bagno turco, o in un orgasmo aggressivo di fusione regressiva di soggetti variamente colorati.
Insomma i nuovi celenterati come gli uccellacci cromatizzati di François Rabelais, per dare uno spaccato dello stagno e della putredine culturale e politica cui sono stati, per tempo, sempre funzionali e dediti gli ordini religiosi monastici di ogni tempo.
I nuovi celenterati allora, come ieri i “corvi” di Rabelais, in massa affollano il mare mediale della comunicazione e celèntano le innocue e caste battute di un Celentano scenico multimediale (palcoscenico canoro, S. Remo 2012). Il cantante performer che, tra ingenuità e malizia di bambino in cerca di farsi perdonare con l’humour umanitario, becca nel sacco dell’udito sterilizzato della sacra famiglia dei figli di “Famiglia cristiana” e “L’avvenire”, e non solo. I membri dell’orgasmo gelatinoso delle voci bianche della “sacra rota unita” e dei suoi vati-cani inquisitori, che sono a guardia del paradiso del consenso telecomandato, come il cerbero dantesco o la coda di Minosse.
Sì che le variopinte meduse – come i corvi del cattolicesimo religioso tridentino, i “neri, gialli, bianchi, viola, porporati, grigi...” dell’ironico François Rabelais – ricordano che gli acidi del sacrilegio critico, variamente connotato, non sono curativi dell’anima nera del dissenso; e che se vengono sottratti all’amministrazione della stessa censura dell’ortodossia politico-chiesastica, bigotta e ottusa, di casa nostra, e dislocata nei gangli vitali della società della comunicazione, non sono meno nefasti degli estremi del sonno e della lucidità lasciati a se stessi.
Ma così non è se critica ed eresia intellettuale ed etico-politica penetranti – soprattutto tra le trombate carnasciali dell’ironia e del sarcasmo perforanti (anche se oggi il mondo capovolto fattosi carne rende piuttosto difficile distinguere la verità dalla beffa) – ne attraversano e motivano il pensiero demistificante e liberatorio. Qui solo la pruderie “classista”e la malafede del costume consolidato e omologante sono i veri crimini dell’oscenità, della blasfemia e dell’empietà pubblici e privati, e passibili di un processo e di una condanna esemplari: degni cioè di un tribunale di Norimberga o, quanto meno, di un tribunale Russel in re e a venire.
Di ciò si è consapevoli, e la storia non ha fatto altro di volta in volta che scoprirne le carte e i risvolti (il rimosso volutamente tenuto nascosto e segretato); e pochi sono stati i giocatori del pensiero, e del pensiero in azione, che hanno avuto il coraggio di sfidarne il gioco taroccato. I maestri e prestigiatori del mazzo infatti hanno messo sotto cesoie e censure pure la vita e/o la libertà stesse. Perché le cesure, la prigione, il manicomio, la morte e l’omicidio, praticati fino in fondo dal trono e dall’altare o in santa alleanza, non hanno mai smesso di funzionare.
Le violenze come anche le castrazioni legalizzate, quale pedagogia formattante, sono state e sono ancora la bandiera portante del potere finalizzata al comando omogeneizzate, di fronte a cui non servono affatto gli intellettuali talk show o quelli che giocano il ruolo d’expertise. Se non possono più esercitare il ruolo di avanguardia e di formatori della coscienza collettiva (come hanno discusso Foucault e Deleuze in un incontro degli anni Settanta) è pur tuttavia possibile che escano dallo stato di minorità vittimistico e succube del clericalismo religioso e politico della globalizzazione liberista e imbrocchino la strada di un nuovo illuminismo materialista e anticlericale di forte istanza etico-politica del comune.
Sdivinizzare la violenza e la gratuità terroristica del potere legalizzato (sia esso religioso o statale o del privato che ha occupato il pubblico) non è cosa o impresa (anche letteraria) facile da imboccare e coltivare, come invece lo è quando ci si adegua, nubi pecorine, ai flussi del clima del cielo programmato e protetto e alle cime ballerine che si moltiplicano e respirano spontaneamente il cambiare del vento e degli odori.
Ma ci sono le correnti turbolente e caotiche che pescano altre traiettorie della biforcazione catastrofica e obbligano a carte nautiche di contro-orientamento e diversa potenza contrastiva che pensano, scrivono, agiscono di contropelo e varianza di stile, genere, ascendenza teorica e conoscenza, empirìa e prassi svelanti le edulcorazioni mistificanti, seppure ad altro livello di significanza critico. Quello della simbiosi semantica della modellizzazione estetico-letteraria o generalmente artistica..
François Rabelais – medico all’Ospedale pubblico di Lione, al suo tempo; scrittore e umanista dell’umanesimo francese del XVI – e il prigioniero del manicomio di Charenton, Donatien, Alphonse François marchese de Sade – aristocratico illuminista e scrittore che sposò la rivoluzione francese – sono due di questi esemplari.
Rabelais scrisse però che era disposto a difendere il demone delle sue idee comico-grottesche e parodiche contro l’ordine religioso, variamento denominato – “corvi bianchi, neri, rossi, grigi, ecc.”–, solo fino a un certo punto: "fino al rogo escluso" (Mario Lunetta, Il vizio impunito, Campanotto Editore, Udine 2011, p. 17).
Non così il marchese de Sade. Il prigioniero del manicomio di Charenton (ivi rinchiuso perché il suo antagonismo è stato considerato sovversivo-criminale o pericoloso per la moralità e l’ordine pubblico), odiato tanto dalla Chiesa medioevale quanto da quella repubblicana di Robespierre e dalla monarchia. In una lettera alla moglie del 1793 (dall’isolamento e dal carcere a vita) scriveva che mai si sarebbe piegato, che mai avrebbe ritrattato, camuffato o rinunziato al suo modo di pensare e di scriverlo: “...cosicché ci tengo più che alla vita stessa.Non è certoil mio modo di pensare che mi ha reso infelice, ma al contrario quello degli altri” (Il vizio impunito, cit.,p.36 ).
Entrambi innamorati della vita e della scrittura spigolosamente gioiosa e immaginativamente delirante tra acidità e lucidità, Rabelais e il Marchese de Sade sono due esempi di scrittura e di pensiero non colonizzati dagli assetti dominanti dell’epoca; due impenitenti eretici di spiccato lusso analitico-intellettuale e politico e punti di riferimento esemplari.
Esemplari per quanti, specie oggi, sono supine piattole, invece, e appiattite lingue sui/dai diktat (morali, culturali, sociali, politici, ecc.) formattati e autorizzati dal mercato dei discorsi governativi dell’ordine religioso (chiesa italiana) e politico (governance italiana) o del loro perverso connubio.
Basti l’esempio del recente attacco congiunto alle caste dichiarazioni del cantante Adriano Celentano – durante l’ultimo festival della canzone italiana a S. Remo/2012 – contro due giornali (“giornali inutili”) della Chiesa di Roma: “Famiglia cristiana” e “L’avvenire”. Il coro di ipocrita indignazione – dei nuovi “celenterati” rabelesiani degli schieramenti egemoni e dominanti della gerarchia del potere politico-religioso – si è levato subito in allarme e armi contro chi ha osato (e osa) sollevare la schiena contro le menzogne e gli sviamenti coltivati ad hoc dell’egemonia ideologica in corso, e pagante. Il potere sacralizzato, e dotato di precotte verità intoccabili, non ha perso tempo a schierare contro tanta truppa legittima o merceria e nera intruppata!
Una cosa è certa. Non sembra abbiano letto o preso ispirazione dalle riflessioni critiche di Donatien de Sade sulla necessità di intervenire per formare costumi cittadini sani e utili alla Repubblica. Piuttosto amano farsi vedere dedicati a difendere pregiudizi, ciarle, vizi, lazzi, ecc., e in nome, poi, di quale investitura non è dato sapere e capire se non per titolo di arroganza, strapotere o ignoranza esibita o coltivata strumentalmente per interesse di classe e del nobile vizio (suo) discriminante/eliminante: mors tua, vita mea.
Per cui, ai vecchi e nuovi ciarlatani, il Sade- Français, encore un effort si vous voulez être républicains, il libro curato da Stefano Lanuzza per la collana FIABESCA BenedettiMaledetti dell’editrice Stampa Alternativa (Roma 2012).
Una cosa è certa: non si esce indenni dagli intrecci vischiosi e densi che tagliano chiasmaticamente il potere del linguaggio e il linguaggio del potere (con tutto il mare di rovine e di lasciti aperti che si accompagna alla storia concreta e materiale) quando la storia dei cittadini, degli individui o dei soggetti incrocia la dissacrazione e si trova al bivio delle scelte di pensiero e di vita, rigorosamente condotte.
Se poi il soggetto (Donatien Alphonse François de Sade) è un reo confesso – “ Sì, sono un libertino, lo riconosco: ho concepito tutto quanto può concepirsi in tale ambito, ma certamente non ho fatto tutto quello che ho immaginato e di certo non lo farò mai. Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino” (Sade- Français, encore un effort si vous voulez être républicains, cit., p. 5) – e le sue verità maledette sono all’indice dei libri proibiti (poco manzoniani), le lacerazioni sono di casa.
Donatien Alphonse François de Sade, infatti, è uno che ha pagato il suo conto di indesiderato specchio ustorio. La società vecchia e nuova, con il suo discorso d’ordine nel passaggio dal system medioevale a quello borghese della rivoluzione illuminista, non ha gradito il coraggio dell’onestà intellettuale e morale del “profanatore”. In un ring senza sosta ha sentenziato scellerata la compattezza lucida della sua “immaginazione” quanto del suointelligere. Né il carcere, né la fama del disprezzo, profusamente elargiti, o l’isolamento nei manicomi criminali ne hanno messo a tacere la vitalità intellettuale-immaginativa o attenuato i rigori erotico-antisacrali scagliati contro gli “evirati cantori” delle voci bianche o sacerdotali (comunque servili) dello stato di quiete uniforme e continuo dell’epoca.
Secondo il “divino”, infatti, la costruzione sociale (quale “necessaria” connessione con la filosofia naturalistica delle pulsioni) nelle sue declinazioni politico-artificiali e innovativo-de-formanti, nonché contrastanti l’immaginario etico-religioso e politico ossificato del vecchio e nuovo ordine, non può giocare a nascondino né con le inclinazioni naturali gioiose degli uomini (dello stesso avviso era Rabelais: il riso polifonico che trasuda dalla sua scrittura è testimone più che fedele), né con gli adeguati “costumi” della nuova società illuministica strutturabile in Repubblica. Qui certamente le fandonie del soprannaturale e i pregiudizi teorico-pratici dell’istituzione religiosa costituita e cristallizzatasi non servono di vero le realizzazioni del nuovo modo d’essere della civiltà rivoluzionaria, né le sue finalità d’insieme.
Così, a proposito dell’eros gioioso e disinibito, il Marchese de Sade (l’esacrato), lì dove il corpo delle donne e degli uomini oggi, nonostante l’estetizzazione erotizzante, sono ancora considerati di proprietà della Chiesa o dello Stato, scrive: “qui si tratta solo del godimento e non della proprietà. Non ho nessun diritto alla proprietà di una fontana che incontro sul mio cammino, ma ho dei sicuri diritti al suo godimento: ho diritto di profittare dell’acqua limpida offerta alla mia sete” (Ivi, pp. 80-81).
Del resto non bisogna dimenticare che per un Pascal il “diritto” è stato il primo atto di violenza che di fatto si è imposto come “ragione” che ha sopraffatto la ragione contraria, e che la scomoda assunzione della “crudeltà” libertina del divino Marchese non è esorcizzabile con i moralismi del comodino ideologico e moralizzatore egemone.
Così, per esempio, scrive ancora e sfida il testimone de Sade, se “l’assassinio è un orrore, ma un orrore necessario, mai criminale” (Ivi, pp. 115-116) – come può essere la strage di una peste o il taglio della potatura inflitta a una folta vegetazione per provocarne la rigenerazione (sempre presente è nelle argomentazioni dell’autore il confronto con l’opera distruttiva-creativa delle forze naturali e artificiali) –, la pena di morte comminata (o altra grave penalità) è atto riparatorio credibile allora e legittimo?
“Coloro che risponderanno al seguente dilemma avranno risposto esaurientemente alla domanda: L’omicidio è un crimine o non lo è? Se non lo è, perché fare delle leggi che lo puniscano? E se lo è, per quale barbara e stupida incoerenza lo punirete con un crimine eguale?” (Ibidem, p. 116).
E di fronte alle “incoerenze” e alla necessità di modifica dei comportamenti e dei costumi, il “grande maledetto” sottolinea che la forza della violenza gratuita e costrittiva non paga: “io non propongo massacri né deportazioni: tutti questi orrori sono lontani dalla mia anima perché io possa osare di concepirli per un minuto. [...] queste atrocità vanno bene per i re e per gli scellerati che li imitano”(Ivi, p. 54).
Meglio la praxis della freddezza dell’ironia dura, tagliente ed efficace quanto può essere quella che invece assume le vesti del sarcasmo e del ridicolo (del resto Rabelais ha fatto scuola).
Così Donatien Alphonse François de Sade ci si presenta con la ghigliottina della risata disarmante e combattiva quando si rapporta al sovvertimento della catechizzazione della religione. La risata cioè salutare che ogni “repubblicano”, storicamente laico, non dovrebbe mai abbandonare come arma critica e autocritica di fronte alle acrobazie persecutorie o alle richiesta di ubbidienza indiscutibile (avanzata a divinis) sia il potere religioso o temporale a chiedere l’asservimento.
Dopo “aver dimostrato che il teismo non conviene assolutamente a un governo repubblicano, mi pare necessario provare come, ancora di più, non gli convengano i costumi francesi. [...] È impossibile che il cittadino di uno stato libero si comporti come lo schiavo di un re despota. [...] Una volta accordata la libertà di pensiero e quella della stampa [...] in una società le cui basi sono costituite dalla libertà e dall’eguaglianza dato che, a ben pensare e ben esaminare le cose, è davvero criminale solo quanto contrasta con la legge. [...] Non vorrei che ci si limitasse a permettere indifferentemente tutti i culti. Io desidererei che si fosse liberi di ridere o di beffarsi di tutti; che uomini riuniti in un tempio qualsiasi per invocare l’Eterno a loro modo fossero visti come commedianti su un palcoscenico, al gioco dei quali è permesso a chiunque di andare a ridere” (Ivi, pp. 57, 58, 60)
Così se il potere religioso (e non) ti condanna al rogo, al silenzio coatto o alla pena di morte – questa non ha mai represso un crimine, visto che esso viene commesso ogni giorno ai piedi del patibolo”(Ibidem, p. 65); e tuttavia (ancora oggi) benedice le armi e le guerre di religione “intelligenti” con la presenza dei cappellani di guerra o ricorrendo alla fraudolente “volontà imperscrutabile” dei disegni di Dio in rete –, Donatien de Sade invece pensa e scrive:
condanniamo “ad essere deriso, ridicolizzato, coperto di fango in tutte le piazze [...] il primo di questi benedetti ciarlatani che verrà ancora a parlare di Dio e della religione” (Ivi, p. 55).
Non massacri né deportazione dunque pensa/immagina e scrive de Sade, ma la satira feroce e demistificatrice: “Usiamo la forza solo contro gli idoli. Non occorre che il ridicolo per chi li serve: i sarcasmi di Giuliano nocquero alla religione cristiana più di tutti i supplizi di Nerone” (Ibidem, p. 54).
Questi alcuni luoghi del taglio dell’illuminista de Sade ne Français, encore un effort si vous voulez être républicains, il libro uscito nella collana fiabesca “BenedettiMaledetti” e curata da Stefano Lanuzza.
Calunnia, furto, libertinaggio, prostituzione e pratica mercenaria sono gli altri luoghi di invito alla riflessione che, insieme alla vita e alle altre opere (indicate) del libertino, il lettore troverà “Nel Boudoir del Gran Maledetto” ripescato (come l’altro grande maledetto del Novecento, Louis-Ferdinand Céline) da Stefano Lanuzza.
I prossimi volumi della collana fiabesca MaledettiMaledetti, diretta dallo stesso scrittore e critico Stefano Lanuzza, sono quelli che riguardano Lou Salomè, Verlaine, Rimbaud, Nietzsche, Campana.
Posti nel loro tempo, ma situazionabili nel nostro, queste letture d’azzardo sono necessarie per prelevare quale disinfettante (adrenalina curativa) dai circuiti erotico-unheimlich del linguaggio santamente eretico che lo predica.
C’è anche una luce del negativo che il vecchio fariseismo umanistico-cattolico-liberale, ancora in circolo nonostante le tante modernizzazioni decantate in lungo e largo non riesce a soffocare; e che prima o poi, “giusta politicamente” (parafrasando Benjamin), balza fuori perché (ironica, sarcastica, grottesca, comica, parodica, surreale, ect.) eresia pensata “giusta letterariamente” Il taglio altro che interrompe la continuità storica della bêtise canagliesca.
Nel torpore delle intelligenze nostrane, che si rifiutano di pensare e articolare a freddo e a caldo l’immaginazione produttrice, e congetturare le astrazioni più taglienti, queste scritture e scrittori eretico-scismatici sono le uniche e sole discariche e scariche di segno positivo e tensione conflittuale; e più di altre riattivano le sinapsi intorpidite o fuori uso delle masse individualistiche passivizzate o annacquate dalle immagini-identità predilette e firmate dal marketing brading, l’ossequio religioso al mercato mondiale e mondializzato dei vati-canizzanti, e fraticelli scodizzolanti, nei centri commerciali dell’opinionismo clientelare e doxa.
Così “Il vizio impunito” (Campanotto Editore, Udine 2011), uno degli ultimi libri in cui Mario Lunetta raccoglie e mette in circolo scritti che – compresi tra gli ultimi decenni del XX e i primi anni del XXI – riguardano autori tremendamente scomodi (su cui ha messo mano anche il critico Stefano Lanuzza: Céline è un esempio), è una sventagliata salutare di letture e pratiche disintossicanti.
E solo per qualche indicazione, presa a caso (molti sono gli interventi testuali dello scrittore e poeta Mario Lunetta che toccano autori e opere – 36 testi nella parte I denominata “Contro l’esprit de geometrie”; 32 nella II denominata “ Tra dada, surrealismo e nuove avanguardie” – per parlarne come si deve...in questo spazio ristretto); si va, per esempio, dal “realismo congetturale” del poeta Aragon, a “Breton, umorista”, a “Viaggio a Nord, oltre il termine della notte” e “ Céline, l’uomo delle mistiche che non pagano”, a “Il dramma di Sollers”, a “Pierre Klossowski: il mondo sotto il segno dell’equivoco”, a “Sade, Jean-Jacques e l’Imitazione di Cristo”, a “Bataille, l’eretico”, etc.
Così:
1- dell’eretico Bataille, si può leggere: “Opere folgoranti e notturne...lavori altezzosamente controcorrente anche nelle fasi di intruppamento militante...Il ritornello dello scrittore fedele a se stesso non incanta Bataille: nella misura in cui ciò significa rinunciare all’esplorazione delle proprie possibilità conoscitive, alla propria misteriosa avventura contro i loschi ‘misteri’ delle convenzioni sociali, delle frustrazioni legalizzate, dell’Inibizione Costituita insomma, sui cui si regge da secoli la morale occidentale giudaico-cristiana e poi borghese, Bataille la rifiuta”(Il vizio impunito, cit., p. 164);
2- di Aragon, il realista congetturale, leggiamo:
se nel poeta surrealista e comunista c’è un uso “sregolato e passionale di quello stupefacente che è l’immagine”(Ivi,p. 176), ciò non scinde il poeta dal militante: l’immagine, la metafora “impennandosi sovente nel paradosso e nella trasgressione del logos corrente...spesso ne risulta una miscela di straordinaria energia visionaria, capace di resistere in buona misura allo schematismo delle periodizzazioni” (infra);
3- di Céline, di questo “scrittore del rovescio”, per il quale non c’è “mai fondo alle possibilità dell’abiezione” – è come i fauves che hanno introdotto il colore nero escluso dalla tavolozza dagli impressionisti –, sappiamo così del suo “linguaggio carnevalesco” come del grottesco e del riso che lo rapporta all’amato Rabelais: “Nella mia vita ho avuto lo steso vizio di Rabelais. Ho passato anch’io il mio tempo a mettermi in situazioni disperate. Come lui non mi aspetto niente dagli altri,come lui non rimpiango niente” (Il vizio impunito, p. 191);
4- di Pierre Klossowski, cattolico fino ad entrare “nell’ordine domenicano per poi allontanarsene” (Il vizio impunito, cit., p. 168), a quanto racconta il pittore Balthus, e suo amico, Mario Lunetta ne dipinge ottimamente la figura come un altro “diamante nero” qual è la sua opera, l’“empietà” della trilogia su “Roberta”:La révocation de l’édit di Nantes, Robert ce soir, Le souffleur . Concepita sotto il segno dell’equivoco, e quindi inafferrabile nella sua identità, Roberta “nega costantemente se stessa...Militante dell’Esercito della salvezza o ninfomane a caccia delle più esaltanti trivialità...Infermiera e crocerossina incerta tra dedizione e sensualità...zia sempre ad un passo dall’iniziare a un incesto assai ghiotto il giovanissimo nipote?...Ipocritamente e perdutamente lasciva come la sogna il marito o casta Lucrezia?” (Ivi, p. 167). Una figura “messa in forse come sistema coerente attraverso una serie di smentite e di ipotesi sempre passibili di ribaltamento e cancellazione, e l’inserzione capricciosa fino all’arbitrio nella sconcezza più consumata, nella più cerebrale depravazione...quando non sopravvenga, a maggior dannazione dei personaggi, la fase...delle severe dissertazioni teologiche, della problematica etica, con aggressioni al tema...della logica tomistica e delle agudezas bizantineggianti...” (infra).
Una genealogia di scrittori e scritture eretica e scandalosa, la cui genia geniale è di chiamare alla “responsabilità” (obbligo di rispondere) la bêtise dei nuovi celenterati dell’ordine borghese cattolicus simulacrale e delle fandonie più becere in piazza – patria, famiglia, fratelli, sorelle, pietà, guerra, terrorismo, borse, mercato, riprese, diritto e rispetto delle diversità, ecc. – passate dal governo della città come valori di coesione e coscienza (del mercato!).
Difettiamo solo di ironia e di feroce sarcasmo dissolutore!
È necessario, indispensabile persino alla stessa sopravvivenza della specie e del comune, non dimenticare che, in tempi di rivoluzionamento capitalistico produttivo e riproduttivo, il vecchio ordine delle cose, dianzi dichiarato d’inceppo, simultaneamente, sul versante ideologico, è chiamato in causa quale collante salvifico per tutti. È un abito double face, il vecchio Giano bifronte!
E se tutto ciò non è ridicolo e ributtante...quale vomito può essere più salutare per il rovescio epocale di una storia culturale e socio-politica votata a ridurre la relazione dinamica delle cose e della storia materiale e determinata a fascio di neuroni a specchio e chimicamente reattivi?
Quale scannerizzazione di controllo e sorveglianza con “braccialetti elettronici” di varia natura bisogna ancora augurarsi per innescare il risveglio e, non più apolidi distratti e deresponsabilizzati globali, sottrarsi al narcotraffico degli automatismi amministrati delle memorie elettroniche di classe, e spacciati a caro prezzo sul mercato dell’alienazione deideologizzata o presunta neutrale?
Intellettuali, “ancora uno sforzo se volete essere repubblicani” del comune!