Rizpà andò in quel luogo. Prese un luttuoso mantello di sacco, lo tese fissandolo a una roccia davanti agli impiccati. Stette là dalla primavera fino a quando le prime piogge non caddero copiose a dissetare la terra riarsa (2Sam 21,10). Ella protesse i cadaveri non permettendo agli uccelli del cielo di accostarsi di giorno e alle bestie selvatiche di avvicinarsi di notte. Davide fu informato del comportamento di Rizpà. A suo tempo i cadaveri di Saul e di suo figlio Gionata erano stati esposti dai vincitori Filistei sul Gelboe. In seguito erano stati trasportati a Galaad (cfr. 1Sam 31,10-13). Il re li andò a prendere e fece riunire le loro ossa a quelle dei sette impiccati di Gabaon. Tutti furono seppelliti nel sepolcro di Kis, padre di Saul:«dopo di che Dio divenne propizio nei confronti della terra». (2Sam 21,1-14).
Penso siano in molti, anche tra coloro che stringono la Bibbia ogni giorno tra le mani, a ignorare la vicenda di Rizpà. E’ un peccato che sia considerata un personaggio molto secondario della Sacra Scrittura. Avrebbe meritato ben altra sorte. La Bibbia, quasi di passaggio, le riserva poche righe, ma la scena che la vede protagonista, tutta racchiusa in un versetto, è di una così tragica suggestione, che difficilmente può essere dimenticata. In essa, il comportamento di Rizpà evoca l’infinito dolore di tutte le creature povere e indifese della terra, vittime delle logiche spietate dei potenti e di cui, dopo, nessuno parla.
Varie letture sono possibili di questa storia. Tra esse, quella che sottolinea, nellosvolgimento della vicenda, l’importanza del ruolo affidato alla pietas,vedendo in questa figura di donna l’immagine di una “madre coraggio,” e conferendo al suo agire un forte spessore simbolico.Ella diventa così icona di tutte le madri del mondo che, ferite negli affetti più sacrosanti, non cedono alla rassegnazione, ma reagiscono, attraverso gesti dalla forza trasformatrice e profetica. Rizpà prende il segno del lutto, il mantello di sacco, ma non lo indossa, come era consuetudine e come tutti si aspetterebbero; fa del suo mantello una tenda e inizia una lunghissima “veglia”. Ella oltrepassa il ruolo codificato che spetta a una donna davanti alla morte (assumere i segni del dolore e rassegnarsi all’inevitabile) ed è così che lancia il suo messaggio. Diventa con il suo stesso essere e agire segno vivente di sfida, protesta, denuncia delle logiche imperanti. E’ segno di sfida alla crudeltà dei Gabaoniti; è protesta contro la “ragion di stato” che si piega a sopprimere degli innocenti; è denuncia contro David, il re potente che non ha esitato a sacrificare la discendenza del suo predecessore, per difendere il suo trono.
L’intero episodio, quando le ossa di tutti i morti trovano riposo nel sepolcro del comune antenato, termina dicendo che Dio divenne propizio nei confronti della terra. A chi spetta il merito di far cessare la punizione? In quel placarsi c’è l’esaudimento di una richiesta. Se fossimo nell’ambito della cultura arcaica la risposta sarebbe: il prezzo è stato pagato; l’uccisione dei sette discendenti di Saul ha compensato la violazione del giuramento. Sarebbe il trionfo di un’antica giustizia retributiva. È quindi decisivo affermare che quanto pone termine alla carestia è tutt’altro, vale a dire l’atto di Rizpà. Esso ispira la stessa azione del re Davide che onora e riunisce in morte le ossa di tutti i discendenti di Saul. La muta preghiera di Rizpà fa dell’episodio il racconto di una riconciliazione con la terra, che avviene in virtù non già delle vittime, ma dell’onore e della memoria loro riservate. Rizpà compie solo gesti, nessuna parola esce dalla sua bocca. E Davide non la osteggia, al contrario, la imita. L’azione più grande della concubina di Saul è quella di stendere il sacco come sudario sui propri figli (due) e su quelli che non sono nati dalle sue viscere (cinque). Rizpà va oltre gli stessi legami materni. Non compie alcuna distinzione: onora tutte le sette vittime come fossero figli suoi. Non eleva neppure una protesta, divenendo così l’archetipo delle madri di tutti i tempi, per le quali, di fronte alla ideologia della guerra, non c’è altra maniera di protestare che quella di piantarsi coraggiosamente sotto il patibolo dei loro figli come supremo richiamo alle ragioni del cuore. Il suo gesto è quieto come un lamento, eppure è sovversivo come una rivolta, è provocatore, come un rimorso perenne inchiodato sulla coscienza degli oppressori, è un gesto denso di attese di giustizia e punteggiato di incoercibili speranze per il futuro. Il suo agire confuta di per sé la spietatezza legata al peso attribuito alla violazione di un giuramento, il vincolo che, una volta infranto, va pagato con il sangue. Di fronte agli impiccati si erge il macigno di un Dio chiamato in causa per garantire l’osservanza delle clausole e per punire la violazione. Rizpà non riesce a impedire che le vittime siano uccise. La sua pietas però trasforma i morti in motivi di riconciliazione. Ella arriva tardi, per più versi irrimediabilmente troppo tardi, eppure non è solo così: il suo agire è un esempio che placa e un modo per non concedere alla violenza l’ultima parola.
Violairis - 8 marzo 2012 - www.chiesavaldesetrapani.com