Qui si inserisce Pietro con la sua affermazione che, in verità, cela un interrogativo: «E noi, allora? Che sarà di noi che davvero abbiamo lasciato tutto quanto per seguirti?». La domanda, come tutti gli interrogativi autentici e radicali che percorrono la vita e, di conseguenza, le pagine bibliche, attraversa i secoli e giunge sino a noi intatta nella sua capacità di scuotere chi si fermi ad ascoltarla davvero. Oltre ad essere la questione posta da Pietro a Gesù, quello del nostro brano è anche l’interrogativo della comunità in cui e per cui l’evangelista scrive, la quale si trova, con ogni probabilità, a vivere in un contesto estremamente ostile. In seno a questa comunità nascente, a seguito delle vessazioni e delle minacce quotidiane subite, qualcuno doveva cominciare a manifestare perplessità, qualcun altro avrà pensato che il gioco non valeva la candela, che forse era meglio mollare tutto e tornare alla vita di prima, perché tutto ciò a cui questa avventura aveva portato non era altro che una sconfitta avvilente, su tutti i fronti. Qui, sin dall’inizio, non era avvenuto altro che una sterminata sequenza di perdite nei beni di sussistenza e di separazioni nelle relazioni affettive: insomma, un vero disastro, un bilancio dell’esistenza dolorosamente fallimentare, che si trovava a dover fare i conti con un cumulo di macerie. Come riguadagnare, dunque, la fiducia di questi delusi, la credibilità erosa dal disincanto? L’evangelista elabora una strategia che immagina possa andare a segno: mette in bocca allo stesso Gesù parole di speranza che egli rivolge non soltanto ai suoi discepoli, ma anche a quante e quanti, ancora, vogliono dare credito al suo annuncio. Certo, la promessa è impegnativa: ma non è ingannevole, non si prende gioco della sofferenza e delle contraddizioni in cui chi ascolta vive immerso.
Quanto Gesù promette, infatti, possiede un doppio volto: da un lato quello dolce della restituzione di tutto ciò che chi ha lasciato ha, inevitabilmente, perduto; dall’altro, senza alcuna falsificazione della realtà, quello durissimo della
persecuzione. Nessun abbindolamento, nessuna ricetta di felicità, tanto cara ai venditori di fumo, che oggi dispensano un vangelo della prosperità monocorde, vero e proprio insulto alla dignità e all’intelligenza delle donne e degli uomini. Del resto, mettendosi sul sentiero di un uomo che, per ciò che ha detto e ciò che ha fatto, è finito su una croce, come credere che il destino di chi si dispone a seguirlo possa essere glorioso? Questo profilo del cristiano come di un «uomo riuscito», tanto caro, non dimentichiamolo, a certo malinteso ma assai diffuso calvinismo, non ha proprio nulla a che spartire con l’evangelo. Gesù annuncia, insieme, restituzione e persecuzione e, così facendo, sovverte le assurde convinzioni e convenzioni della teologia retributiva e del pensiero della prosperità: chi tornerà a tessere le proprie relazioni e a godere del frutto del proprio lavoro (l’unico bene menzionato da Gesù, difatti, è il campo, non certo il denaro) non lo farà in virtù di una vita irreprensibile, ma a seguito di un atteggiamento che sarà giudicato sconveniente dai potenti. Gesù, da buon ebreo, mantiene la contraddizione, evitando di scioglierla nel pensiero banale e semplicistico, secondo cui chi si comporta secondo il volere di Dio non può che prosperare. Non è così: già il libro di Giobbe aveva cercato di contrastare questa teologia di bassa lega, questa presunzione di evidenza, con tutti i pericoli ed i convincimenti che ne derivano. Gesù riprende questo stesso spirito e ricorda a chi, liberamente, si dispone a seguirlo, che la sua è una chiamata alla scomodità, che espone al pericolo e instilla costantemente il dubbio del fallimento.
Sul sentiero scosceso dell’evangelo il rischio di mollare tutto e tornare indietro è permanente: non lo si lascia alle spalle una volta presa la decisione di incamminarsi con Gesù, perché questa è una decisione da rinnovare ogni giorno, in una situazione che spinge assai più a desistere che non a persistere. E questo per un motivo assai concreto: perché l’evangelo ha a che vedere, prima di tutto, con la realtà; non la elude: al contrario, la vive, la valuta, la contrasta nella sua ingiustizia e la trasforma.
L’evangelo è parola rivolta alla realtà: germoglia dalla terra, con la quale si impasta, si mescola, si sporca. È una verità sporca di terra, l’evangelo: così come i soggetti che sono chiamati a realizzarlo qui ed ora, quei poveri che una Parola biblica troppo spesso tradita ha a più riprese esortato alla pazienza e alla docilità, ad un’obbedienza allo
status quo che ha fatto, per secoli, il gioco dei prepotenti. Alla terra e a chi la lavora e, così soltanto, la conosce, l’evangelo vuole amalgamarsi: perché essa torni ad essere possibilità di vita e di vita degna per tutti e per ciascuna; una terra abitata e non posseduta, il cui frutto nutra tutti anziché saziare pochi e affamare troppi. Questo è ciò che Gesù proclama, questo è quanto lo condurrà, in maniera inevitabile, verso una sentenza di morte, comminata da coloro per i quali l’evangelo suonerà sempre come una minaccia e mai come una promessa. Nella
concretezza risiede la carica eversiva dell’annuncio di Gesù: ecco perché egli non indugia a specificare che la promessa di relazioni rinnovate così come quella del frutto della terra condiviso
riguarda il qui e l’ora e non un futuro indeterminato. La giustizia, come la vigna, è un frutto della terra e del lavoro dell’uomo: va perseguita e realizzata qui, oggi, perché chi la sposta nell’incertezza di un eterno futuro, in realtà non la cerca perché non la desidera ma, al contrario, la teme.
Da questo frutto soltanto potrà venire «
vita senza fine»: quest’ultima è
conseguenza della ricerca della giustizia e
non condizione. Dio viene incontro e porta a compimento: ma l’equità è figlia del diritto praticato dall’uomo su questa terra e non elargizione del cielo.
Ecco perché l’evangelista fa pronunciare a Gesù queste parole: chi ha lasciato qualcosa a causa mia
e dell’evangelo; le due espressioni sono intimamente e reciprocamente legate: ma è importante constatare che non coincidono. I vangeli sinottici mantengono sempre questa distinzione, essenziale perché possa esservi una relazione tra i due termini, che una piena sovrapposizione, al contrario, impedirebbe. Secondo i sinottici, infatti, Gesù non
è l’evangelo: egli lo annuncia, lo incarna, lo vive. Si tratta anche di ciò che ci ha chiesto di fare, invitandoci, in libertà, a seguirlo: è una proposta, come abbiamo visto, senza inganni, che non ignora il chiaroscuro di questa vita che noi, non certo Dio, rendiamo ingiusta. Il problema è se noi, che di quest’ingiustizia godiamo i frutti, siamo disposti a vivere l’evangelo come speranza per la costruzione di relazioni personali e sociali rinnovate. Temo di no: e infatti in molte, troppe chiese, si annuncia un cristo senza evangelo; cosa che, a quanto pare, non scandalizza quasi nessuno. Gesù e l’evangelo vanno, anch’essi, rimessi in relazione di tale, reciproca co-appartenenza che, quanti provano a separarli e a proporre una salvezza disincarnata, dai contorni puramente celesti, vengano riconosciuti come venditori di fumo, latori di una promessa tanto falsa quanto lontana, che il nostro maestro e Signore, al contrario, ha dichiarato essere concreta, presente, quotidiana, schierata.
Domenica 11 Marzo 2011 - Pastore
Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com