Voto e sentenza riaccendono anche il dibattito tra coloro che sarebbero disposti (in teoria almeno…) a un qualche tipo di riconoscimento delle coppie, purché ben distinto dal matrimonio, e coloro che ritengono che si debba aprire l'istituto del matrimonio anche alle coppie omosessuali.
Che cosa possiamo dire, come protestanti? A me pare che Dio non sacralizzi mai l’autorealizzazione umana, foss’anche la famiglia. Il matrimonio per noi non è un sacramento, non è qualcosa di «sacro»: è sostanzialmente un patto tra due persone responsabili che si amano e intendono consensualmente, liberamente e reciprocamente condividere la loro esistenza. Non penso che il significato profondo del matrimonio stia nei figli. Certo, la loro presenza arricchisce il vincolo (salvo eccezioni!). Non credo neppure che stia nella pratica sessuale: certo, anche questo è un prezioso dono di Dio che rende tutto molto più luminoso e lieto. Il matrimonio sta in piedi o cade sull’amore gratuito, reciproco, disinteressato, responsabile, «senza se e senza ma» verso l’altra persona. Perciò mi sembra patetico e discriminante che oggi occorra parlare di matrimonio di serie A (quello tra eterosessuali) e in subordine di coppie di fatto, «Pacs», «Dico» o altre definizioni che in buona sostanza dicono trattarsi di matrimoni di serie B, C, D.
La comunità omosessuale rischia di esser ancora una volta discriminata, messa in una condizione di oggettiva inferiorità rispetto al «matrimonio principe». Chi sul trono e chi sullo sgabello. C’è da chiedersi perché la tutela, nei diritti e nei doveri, dell’unione di coppie gay non possa realizzarsi attraverso l’istituto giuridico del matrimonio connotato in modo uguale per tutti.
Che cosa toglie l’unione matrimoniale di una coppia gay al matrimonio di una coppia eterosessuale? Nulla. Al contrario: fa positivamente emergere una pluralità che arricchisce tutti. Se proprio toglie qualcosa, toglie il velo a secoli di crudeltà e ipocrisie. Nel 1975 il nuovo codice di famiglia ha rivoluzionato in parte l’Italia, i referendum hanno (per nostra fortuna) completato il quadro. A centocinquant’anni dall’ingresso del matrimonio civile in Italia (prima di allora ci si sposava solo davanti al prevosto) possiamo seriamente cominciare a chiederci : perché differenziare il matrimonio tra buoni e cattivi ? Cosa minaccia il riconoscimento di una coppia di due persone dello stesso sesso che si amano? La riproduzione? L’atto sessuale?
Lo ripeto: il matrimonio non è un atto sacro, è un negozio giuridico che prevede diritti e doveri nel costruire un rapporto di solidarietà, reciproco e responsabile. Per dei credenti, però, questo negozio, questo «patto» è visto come uno dei modi con cui si può vivere la vocazione che Dio rivolge alla persona umana nella condizione naturale in cui è stata creata. Oppure si ritiene che esistano una condizione naturale maligna e una benigna per cui occorrerebbe, nel patto d’amore tra due persone, esercitare una discriminazione per tutelare la società dal male ? È una differenziazione che sul piano della ragione giuridica non sta in piedi. E neppure sul piano della fede cristiana. Quindi, un solo matrimonio per tutti. Un solo nome con gli stessi diritti e doveri.
past. Giuseppe Platone -da 'Riforma' n. 12 del 23 marzo 2012 - www.chiesavaldesetrapani.com