Un altro segnale inequivocabile della tendenza è dato dalla diminuzione di quasi 10 punti percentuali di chi definisce alta o molto alta la propria fede (dal 41,1% del 2004 al 31,8%), mentre allo stesso tempo aumenta, e in misura ancora superiore, la percentuale di chi definisce bassa o nulla la propria fede (con un incremento di dodici punti, dal 24 al 36%). «Il dato è ancora più significativo – commenta il sociologo Riccardo Grassi, curatore della ricerca – se rapportato al fatto che, rispetto al 2004, raddoppia la percentuale di chi afferma che negli ultimi 5 anni la propria fede è diminuita e si riduce la percentuale di chi dice che è aumentata. Se dunque nel 2004 si osservava una ripresa di interesse per la fede segnata dal fatto che il numero di giovani che la definivano in crescita era superiore a quello di chi la definiva in calo, nel 2010 il trend si è completamente invertito. Inoltre se nel 2004 due intervistati su tre ritenevano stabile la propria fede, ciò ora vale solo per un intervistato su due». (articolo tratto da http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2010/04/ricerca-giovani-fede.shtml)
Quest’oggi intendiamo riflettere insieme e dialogare su una tematica di indubbia rilevanza e, potremmo persino dire, urgenza: la relazione (complessa, delicata, controversa) che lega mutuamente le chiese e i giovani. Lasciando che siano le altre componenti del nostro gruppo ad introdurci alla riflessione relativa ai loro rispettivi contesti comunitari, vorrei condividere con voi due spunti generali che, con gli opportuni distinguo, credo possano riguardare tutte le chiese dell’ecumene cristiana; e, in seguito, una considerazione relativa alle chiese protestanti storiche.
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Il primo spunto concerne l’evoluzione sociale del nostro opulento e sempre più tediato Occidente: una civiltà che custodisce nel grembo del suo stesso nome il presagio del tramonto, come ci ricordano Umberto Galimberti e, prima di lui, Friedrich Nietzsche. Il rischio, oggi come oggi, è che noi chiese veniamo considerate alla stregua di curiosi reperti archeologici, ricevendo dai giovani un fuggevole sguardo che è un misto di delusione e di bonaria compassione. Le ragazze ed i ragazzi di oggi ricevono una tale gamma di sollecitazioni e di stimoli, tanto sotto il profilo emotivo che sotto l’aspetto culturale (sebbene non ritengo che vengano educati all’emotività e che la mole di dati di cui dispongono non contempli l’abitudine alla restituzione critica), da rendere patetici e vani i molteplici tentativi di «contenimento forzato» messi in atto dalle istituzioni tradizionali, ivi incluse le chiese. La generazione attuale, assai più di quelle passate, intrattiene con le tradizioni un rapporto che non definirei nemmeno conflittuale, quanto, piuttosto, di sostanziale indifferenza: avvezzi ormai agli schemi inflessibili del consumismo, prestano un’attenzione assoluta alla novità, che sarebbe tutt’altro che controproducente se soltanto non fosse esclusiva. Il passato è tema da catalogare, materiale utile per raffazzonate sintesi da Wilkipedia, ripostiglio sul quale affacciarsi sporadicamente e di malavoglia, costretti dalla necessità più che spinti da un’autentica curiosità. E noi chiese, nell’immaginario giovanile, siamo parte integrante del ripostiglio: di questo dovremmo cercare di essere consapevoli.
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Il secondo spunto, strettamente legato al primo, concerne le responsabilità che, come chiese, indubbiamente abbiamo avuto e che, sia pure in misura diversa, continuiamo ad avere nella creazione e nel radicamento dell’immaginario appena descritto. Siamo davvero «al passo coi tempi»? Il fatto che i giovani ci releghino in un passato lontano e difficilmente comprensibile ha a che vedere con la nostra scarsa capacità di ripensare strutture e modalità di comunicazione e partecipazione? Non sarà forse, quello ecclesiastico, l’ennesimo aspetto del nostro vivere sociale dal quale i giovani si sentono puntualmente esclusi? Non disponiamo forse di uno spazio troppo esiguo perché il fermento della novità possa venire a trasformare le nostre abitudini?
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La terza riflessione, come ho provato ad anticipare, riguarda più da vicino la realtà di cui sono parte. Per quel che riesco a comprendere e ad intuire, nelle chiese protestanti storiche avverto la mancanza di un trasporto reale e di un profondo convincimento esistenziale: l’accento, da noi, cade quasi esclusivamente sulla componente intellettuale, trascurando, in questo modo, gli aspetti fondamentali del coinvolgimento integrale di una persona. Non mancano, da noi, consapevolezza, approfondimento biblico, impegno sociale su tematiche sensibili: siamo però carenti, probabilmente, sotto il profilo della ricerca di senso autentica. Spesso l’ambito della fede, per noi, è diventato, per così dire, accessorio, anch’esso palestra dei nostri incessanti esercizi teologici, nei quali i giovani, comprensibilmente, non riescono a sentirsi coinvolti. Dovremmo andare in cerca, credo, di una più profonda umanità, che si traduca in una semplicità che è nemica delle semplificazioni e che ci aiuti a conferire al nostro rapporto con Dio quella centralità che è propria di tutte le ricerche di significato tentate e vissute: perché di questo, nella nostra civiltà dello smarrimento, mi sembra di percepire che i giovani sentano il bisogno. E noi, ed io, con loro.
Alessandro Esposito -pastore presso la chiesa valdese di Trapani e Marsala -
www.chiesavaldesetrapani.com