Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
31/03/2012 04:17:09

La morte di Gesù (II Parte)

Tuttavia la questione è più complicata. Perché oggi non sono pochi gli esegeti che sostengono che sicuramente le parole di Gesù “Io sono il messia, il figlio di Dio benedetto” (Mc 14,61-62) sono un’aggiunta posta dai cristiani dopo la resurrezione per esaltare Gesù. E allora, quello che abbiamo è che Gesù, di fronte all’interrogatorio solenne del sommo sacerdote (Mc 14,60) rimase in silenzio e non rispose nulla (Mc 14,61). Perché lo condannarono, allora, se le cose andarono cosi? La risposta sembra essere la seguente: resistere al sommo sacerdote nell’esercizio della sua funzione giudicante era punito in Israele con la pena di morte. Pertanto, il mancato rispetto verso l’autorità, soprattutto quando questa esaminava l’ortodossia dei “maestri di Israele”, era un motivo giuridico per condannare a morte. Senza dubbio, ciò sembra essere realmente quel che accadde lì. Il silenzio di Gesù di fronte all’interrogatorio del sommo sacerdote fu un atteggiamento di critica nei confronti del tribunale che, secondo la legge, aveva la facoltà di giudicare la sua dottrina e la sua vita. Gesù si rifiuta di sottomettere la sua dottrina e la sua vita all’autorità giudaica. Tace. Di conseguenza, egli si rifiutò di sottomettere all’autorità giudaica la questione della sua missione e della sua attività. E questo pare che fu il motivo per il quale i dirigenti religiosi d’Israele condannarono Gesù a morte. Dopo ci fu il processo politico. Però qui la cosa è più chiara. Perché dal cartello posto sulla croce sappiamo che Gesù fu condannato per una causa politica: per essersi proclamato re dei giudei (Mt 27,37; Gv 19,19). Ma qui è importante tener conto del fatto che il procuratore confessò di non vedere alcun motivo per uccidere Gesù (Lc 23, 13-16) e inoltre dichiarò che era innocente (Lc 23,4; Gv 18,38; 19,4.6). D’altra parte, Gesù spiegò dinanzi al procuratore che il suo regno non era come i regni di questo mondo (Gv 18,36). In realtà, il procuratore emise la sentenza di morte perché i dirigenti religiosi lo minacciarono di denunciarlo all’imperatore (Gv 19,12). Nel Nuovo Testamento ci sono tre correnti di pensiero quando si tratta di interpretare teologicamente la morte di Gesù. La prima di queste correnti è quella che si riferisce al profeta martire. Questa interpretazione appare nell’evangelo di Luca (Lc 13,33; 11,47- 48.49sgg.). Ma cosa significa essa per noi? Per rispondere a questa domanda conviene ricordare, anzitutto, che Gesù fu considerato un profeta durante il suo ministero pubblico (cfr., ad es., Mt 21,11; Mc 6,15; Lc 7,16.39; Gv 7,52; At 3,22-23). E per di più, egli fu considerato come il profeta definitivo, colui che doveva venire per mettere le cose a posto (Gv 6,14; 7,40). Però, d’altra parte, c’era anche la convinzione che “Israele uccide i suoi profeti”. Di conseguenza, da questo punto di vista, Gesù fu considerato dalle prime comunità cristiane come l’ultimo e definitivo profeta che Dio aveva inviato al mondo e che, come gli altri profeti, fu assassinato dalla malvagità di Israele. Ma in realtà, la cosa risultò più problematica. Perché è certo anche che Gesù fu considerato come il “grande avversario”, il falso profeta, che ingannava la gente. C’era chi diceva che era un seduttore, che inoltre “bestemmiava contro Dio”. Ciò vuol dire che la vita di Gesù ebbe un senso ambivalente, positivo e nagativo allo stesso tempo. Per questo, a partire dalla resurrezione, Gesù fu presentato come il vero profeta, l’autentico inviato da Dio, il messaggero degno di fede. Di fronte a questa interpretazione, si tratta di comprendere quanto segue: Gesù è colui che insegna la via di Dio, perciò è la soluzione che Dio offre ai problemi della vita. Di conseguenza, per stare con Dio bisogna stare con Gesù. Perché, c’è da dirlo con molta chiarezza, il conflitto che produsse la vita di Gesù continua a prodursi anche oggi. E perciò oggi anche noi ci troviamo esposti all’opzione: o considerare Gesù un seduttore o considerarlo il vero profeta di Dio, la vera via, l’autentica soluzione. Tenendo conto che la seconda opzione è molto più rischiosa, in quanto si tratta della soluzione che offre un crocifisso, cioè, un perseguitato, un calunniato, un condannato, un giustiziato. Però qui, precisamente in questo, si manifesta la sapienza di Dio e la potenza di Dio. (1Cor 1,18-25). Una seconda corrente di pensiero del Nuovo Testamento interpreta la morte di Gesù dal punto di vista del piano divino di salvezza. Qui non si tratta di una descrizione dei fatti, così come si svolsero, ma di una riflessione dei primi cristiani su quel che era accaduto, per darne una spiegazione. Perché era necessaria questa spiegazione? Per una ragione che si comprende subito: nell’Antico Testamento si dice che “essere crocifisso è una maledizione divina” (Dt 21,23; Gal 3,13). Di conseguenza, i primi cristiani dovettero dimostrare che Gesù, malgrado fosse stato crocifisso, non era un maledetto. Ma per arrivare a questa dimostrazione, ricorsero al seguente argomento: la morte di Gesù in croce risponde al piano divino di salvezza; si tratta, cioè, del fatto che Dio stesso è stato colui che ha voluto e che ha disposto che le cose avvenissero come di fatto avvennero. Però qui, occorre ripeterlo, non si tratta di una descrizione, ma si tratta di una interpretazione o spiegazione teologica che i primi cristiani fornirono di questi fatti. Questa corrente di pensiero ha la sua parola chiave nell’espressione “doveva” succedere. Cioè, la morte di Gesù “doveva” succedere come di fatto successe. Questo si riscontra in due serie di testi: a) Mc 8,31; 9,12; Lc 17,25. La forma originale di questa tradizione è: “Quest’uomo deve soffrire molto e così essere glorificato”. L’essenziale, per questa tradizione, è “soffrire molto” ed “essere glorificato”. Qui Gesù appare, per così dire, passivo tra due soggetti agenti: i giudici e Dio. b) Mc 9,31; 14,41; Mt 26,2  Qui l’espressione chiave è: “Quest’uomo sta per essere consegnato nelle mani dei figli degli uomini”. Qui Gesù non sta tra due soggetti, ma l’azione parte esclusivamente da Dio: è Dio stesso che consegna Gesù alla morte. Così allora, la passione e la morte di Gesù si interpretano, in questa corrente di pensiero, come un fatto che Dio stesso mise in movimento e nel quale è percepibile l’intervento divino. Dall’altro lato, qui gli uomini appaiono non come i destinatari o i beneficiari della morte di Gesù, ma come quelli nelle cui mani si è consegnato lo stesso Gesù. In definitiva, cosa vuol dire tutto questo per noi? Per rispondere a questa domanda c’è da tenere conto di quello che a quel tempo e in quella società dovette significare e rappresentare la morte di Gesù, così come avvenne. Per quella gente un crocifisso era un maledetto, un condannato, uno screditato totale da parte di Dio e dei suoi rappresentanti in questo mondo. E Gesù morì così. Per noi oggi questo rappresenta un supremo atto di eroismo. Ma allora non era così. Rappresentava, al contrario, il fallimento e la riprovazione più assoluta. Per questo, si imponeva la necessità urgente di dimostrare che un tale fallimento e una tale riprovazione significassero paradossalmente, per i cristiani, un “ evento voluto da Dio”. E un evento, inoltre, che i credenti dovevano imitare (Mc 14,27. 38. 66-72). La questione ora sta nel comprendere che, in fondo, a noi sta succedendo esattamente lo stesso che alla gente del I secolo. “Essere crocifisso” è lo stesso che “soffrire e morire per il popolo”, essere disposto a essere ritenuto un maledetto e un condannato dalla società. E allora, reagire con la convinzione che “questo è quello che Dio vuole”. Perché i cammini di liberazione dell’uomo passano inevitabilmente per la sofferenza che ci arreca lo scontro con i poteri di questo mondo. La terza corrente di pensiero presente nel Nuovo Testamento riguardo alla morte di Gesù interpreta questo evento come una morte espiatoria in favore dell’uomo, cioè come un sacrificio che Gesù soffrì al posto degli altri, per salvare e redimere tutti. Questa corrente di pensiero si basa sulle formule che, in greco, utilizzano la preposizione hyper (per, in favore di): morto “per noi”, “per” i nostri peccati. I testi nei quali questo appare sono i seguenti: Rom 4,25; 5,8; 8,32; 1Cor 15,3; Gal 1,4; Ef 5,2; Mc 10,45; 14,24; Lc 22,19-20; 1Pt 2,21. Questa interpretazione suppone che l’uomo si trovi, in maniera inevitabile, in una situazione di disgrazia e di perdizione, che si deve alla propria condizione umana e al peccato personale inteso come rottura con Dio. Questa situazione, però, può essere rimediata solo da Dio stesso, che in Gesù cristo si fa come uno di noi, e mediante il suo darsi totalmente a Dio nella morte, rende possibile quello che per il solo uomo era impossibile: l’avvicinamento a Dio, la partecipazione alla sua vita divina, il superamento della morte e il destino felice per sempre. Però qui è fondamentale tener conto del fatto che tutto questo è il risultato della riflessione cristiana su quello che fu di fatto e storicamente la morte di Gesù. Quell’evento, in quel tempo e nella cultura dell’impero romano, si scontrò subito con una difficoltà quasi insuperabile. Dopo la morte di Gesù, i suoi seguaci cominciarono presto a predicare che quel galileo, che era stato giustiziato su una croce dal potere romano, era il Dio nel quale essi credevano. Però, nell’impero romano era impossibile affermare e difendere il fatto che si aveva come Dio un crocifisso. Credere in un “dio crocifisso” era peggio che una pazzia. Rappresentava il totale discredito, l’esclusione dalla società e la maledizione del cielo. In ogni caso, un “crocifisso” non poteva costituire in alcun modo, per la gente di allora, una rappresentazione religiosa. Basta leggere Tacito o Cicerone per rendersi conto di questo. Stando così le cose, la teologia del Nuovo Testamento, specialmente quella di Paolo, trovò una spiegazione plausibile di quella storia inaccettabile, presentando la morte del cristo appunto come una morte espiatoria. Ma il Dio che viene fuori da una tale teologia è un Dio contraddittorio, che da un lato viene definito come “amore” (1 Gv 4, 8. 16), e dall’altro, viene dipinto come un essere “infinitamente”offeso dal peccato dell’uomo, per perdonare il quale, ha bisogno della sofferenza, del sangue e della morte del figlio. Questo spiega perché, riguardo a questa terza interpretazione, gli esegeti del Nuovo Testamento sogliono dire che è uno sviluppo secondario nell’insieme della dottrina del Nuovo Testamento sulla morte di Gesù. Si tratta, pertanto, di una maniera di considerare la morte di Gesù che appartiene al complesso della fede cristiana, ma che è secondaria rispetto al fatto principale: la morte del profeta martire così come è già stata spiegata. Dio non vuole la sofferenza umana. Dio è Padre di tutti gli uomini. E questo vuol dire che Dio vuole la felicità e la realizzazione piena dell’uomo, di qualunque uomo. Quel che succede è che Dio vuole questa felicità e questa realizzazione dell’uomo in una società nella quale alcuni uomini calpestano altri e li schiavizzano. Da tutto ciò, risulta abbastanza chiaro che il senso storico e concreto della croce del cristo, il destino di morte di Gesù è strettamente legato alla ribellione contro l’ingiustizia. Ma questo vuol dire che esiste una relazione essenziale tra la croce e la situazione di tutti i crocifissi di questa terra: i poveri, gli oppressi, gli emarginati e gli umiliati. Optare per la croce è optare per queste persone, mettersi dalla loro parte, perché la loro situazione cambi. In definitiva, perché in questo mondo ci sia pace, solidarietà e amore. Per questo comprendiamo adesso che si adultera la croce del cristo quando si fa di essa uno strumento di rassegnazione e pazienza dinanzi ai mali di questo mondo. La croce è tutto il contrario. Perché è il segno della più sacra ribellione contro la sofferenza che alcuni uomini impongono ad altri. La croce non è un ornamento né tantomeno può mai essere l’onorificenza che sfoggiano sul petto i crudeli e gli arroganti. La croce è il simbolo di coloro che lottano perché in questa terra ci sia più eguaglianza fra tutti, più solidarietà con i crocifissi della storia e più fraternità fra tutti i figli di Dio.   Violairis - 29 marzo 2012 - www.chiesavaldesetrapani.com