Il primo aspetto riguarda l’atteggiamento con cui le donne si recano presso il sepolcro: vanno, chiaramente, con l’intenzione di ungere il corpo di un defunto; vanno a compiere un ultimo gesto di affetto e di premura, a dispensare le ultime carezze al corpo ormai inerte di un uomo amato.
I primi bagliori dell’alba in cui muovono i loro passi riflettono anche il loro stato d’animo, sospeso tra luce ed ombra, sfiorato da raggi che rischiarano senza però offrire alcun tepore: si sentono tristi, affrante. Lungo il tragitto, un’unica domanda a turbarle: chi potrà spostare per noi la pietra che occlude l’ingresso del sepolcro? Questo è il solo ostacolo che si frappone tra l’amato e il loro desiderio di carezze. All’apparenza si tratta di un impedimento rilevante, forse persino inamovibile: eppure le tre donne si recano ugualmente alla tomba. Mettersi in cammino guidate da un desiderio d’amore, nonostante si sappia di doversi imbattere in una barriera con tutta probabilità insormontabile: è questa la prima metafora, concreta, visibile, dell’evento di cui le donne si apprestano, loro malgrado, ad essere le prime (e secondo Marco persino le uniche) testimoni.
Il secondo aspetto concerne il gioco di sguardi che percorre tutto il racconto. Il primo movimento, significativamente, è «verso l’alto»: mentre gli occhi, ricolmi di tristezza, erano fissi nel vuoto o inchiodati sul sentiero, d’improvviso lo sguardo si leva verso un sepolcro che già promette di non essere più tale, poiché, dovendo a rigor di logica essere chiuso, è invece aperto. Un luogo d’ombra è attraversato, sorprendentemente, dalla tenue luce dell’aurora; uno spazio sigillato che ospita un corpo immobile viene scorto senza la grossa pietra che lo occludeva: anche questi dettagli sono promesse dell’inatteso.
Entrando, poi, nel sepolcro, la vista è colpita da un giovane vestito candidamente e placidamente seduto: una volta ancora simbolo di luce e di vita, laddove chi giunge si attende di incontrare soltanto ombra e morte. Nulla allude alla concitazione: tutto sembra tranquillo, la sparizione sembra avvenuta in un’atmosfera di serenità e di silenzio, quasi nascostamente, senza evidenza e senza clamore. Marco ci narra di una resurrezione avvenuta in punta di piedi e operata da un Dio delicato, che non ama dare spettacolo. Il giovane invita le donne a spostare ancora una volta lo sguardo sul luogo, ormai vuoto, dove il corpo dell’amato era stato adagiato: si tratta di comprendere e di credere a partire da un’assenza. Questo è l’evento della resurrezione descritto da Marco, l’evangelista dall’eloquio scarno, senza fronzoli: un tuffo nel vuoto, uno sguardo che non vede se non un’assenza, uno schiaffo all’evidenza.
Del giovane, però, ci sono anche le parole. Quelle centrali affermano qualcosa di inverosimile e non del tutto chiaro: «Cercate Gesù, il nazareno, il crocifisso: è stato ridestato, non è qui». Nessun appellativo glorioso, nessun richiamo alla regalità o alla messianicità di quell’uomo: soltanto la sua umile provenienza e il suo tragico destino. Una volta ancora, una descrizione sobria, concisa. L’uomo di Nazareth, il maestro crocifisso a causa delle sue parole e delle sue opere di giustizia, del diritto che aveva reclamato per gli oppressi, non era più in quel luogo di morte: il Dio che rialza gli oppressi lo aveva ridestato; Colui, Colei che dona la vita perché ne è la fonte inesauribile, aveva riversato in quel corpo l’amore incondizionato ricevuto da un umile maestro di campagna, amato dagli ultimi e degli ultimi - così come di Dio - perdutamente innamorato.
Ora, a dover essere ridestati, sono i suoi discepoli: quegli stessi che, nell’ora del fallimento, sono improvvisamente scomparsi e che, adesso, sono convocati nella terra in cui, per ciascuno di loro, era avvenuto l’incontro - sperato, imprevisto - con l’amato. L’appuntamento è nell’umile Galilea, terra di braccianti e pescatori; la città che aveva dato la morte è terreno infido; il suo tempio luogo delle convenzioni, inadatto alla voce dell’uomo che aveva danzato nel vento, ondeggiando con le spighe, giocando con gli uccelli. Quegli spazi aperti erano assai più idonei ad accogliere la vita che torna: allora recatevi in quei luoghi umili e amati, senza indugio. Là un nuovo incontro vi attende. Anche questo tornare a vedersi rimarrà in Marco sospeso nella promessa, sottratto all’evidenza, come ogni speranza, come ogni amore. L’invito è a muovere i passi: soltanto questo conta, soltanto questo cambia le cose; disporsi al movimento, rimettersi in cammino, permanere nell’itineranza propria del discepolo. Gerusalemme è la città che inchioda: Gesù alla croce ed i discepoli al lutto e al passato. Bisogna tornare ai luoghi di quella libertà che ha l’odore dei campi della Galilea: di là, lontano dal potere e dalle sue sedi, nell’invisibilità dei villaggi e della loro gente, metterà radici un evangelo che promette agli ultimi riscatto e una vita capace di generarsi dall’oppressione che schiaccia ed uccide. Dio risolleva e ridesta quanti perdono la vita per costruire un Regno di giustizia e di misericordia: questa la promessa che si spanderà come brezza per le campagne della Galilea.
Prima di recare la promessa e l’invito, il giovane mostra sensibilità nelle sue parole: cogliendo lo spavento negli sguardi e nei gesti delle donne, che rimarranno mute per tutta la durata dell’incontro, le esorta a non temere.
Eppure il timore che le coglie sin dall’inizio, nonostante l’incoraggiamento e la dolcezza del giovane, non si dissiperà: Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome fuggono dal sepolcro in preda ai tremori, fuori di sé. Ed il mutismo che le aveva colte di fronte al giovane prosegue al di fuori della tomba: la paura fa sì che le loro lingue si incollino ai palati. Con questo silenzio, con un annuncio soffocato, si conclude l’evangelo di Marco. Noi siamo figlie e figli di una predicazione ecclesiastica che ha perennemente calcato l’accento sulla resurrezione come manifestazione evidente della potenza di Dio: Marco ci invita a considerarla in silenzio, senza tralasciare quello stupore che rese mute le sue prime testimoni.
Provare sbigottimento e smarrimento non è una reazione da condannare: e la condanna è proprio l’aspetto che più le chiese faticano ad abbandonare. Il desiderio manifesto è quello di una fede senza titubanze, sicura di sé, granitica: ma questa è anche l’immagine di una fede incapace di stupirsi, che ha estromesso dalla gamma dei sentimenti quello del tutto naturale e fecondo del turbamento. Ecco perché Marco ci incoraggia a fare della fede il luogo della lotta contro le evidenze, spingendoci a sfidare il vuoto, a sostenere l’assenza: perché nell’assenza e nel vuoto, spesso, sentiamo che le esperienze della vita ci sospingono e, talvolta, ci fanno precipitare.
Da lì, dal profondo della nostra angoscia, come ricorda il salmista, Dio viene a risollevarci, a ridestare quanto la disperazione ha in noi sopito e sepolto, a restituire ai nostri sguardi il dono che è dei bimbi e dei semplici: quello stupore da cui, soltanto, la fede può nascere e rinascere.
Trapani, Domenica 8 Aprile 2012 (Pasqua di resurrezione) -
Pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com