Stasera a cinema (16 Aprile 2012, ore 20, Castelvetrano, cinema “Marconi”; il 18 Aprile 2012, ore 18, Palermo, Centro sperimentale di cinematografia – Cantieri culturali della Zisa). Il film che vedremo, in prima visione, è Il viaggio di Malombra di Rino Marino.
In queste due occasioni la partecipazione è per inviti e la proiezione è organizzata con il patrocinio del comune di Castelvetrano-Selinunte . Sempre a Castelvetrano (cinema “Marconi”), e aperta al pubblico, è prevista pure una proiezione alle ore 21 (18 Aprile 2012) ed una alle ore 19 (19 Aprile 2012).
Rino Marino, di questo film, è: regista e autore del soggetto, della sceneggiatura, delle scene e dei costumi. La fotografia è di Vincenzo Agate. Interpreti sono: Liborio Maggio, Salvo Terruso, Nando Bagnasco, e Luigi Maria Burruano. Altri personaggi, e felici interpreti, sono i protagonisti del “teatro-terapia” cui da tempo Marino, ormai, si dedica con la dedizione professionale del medico (è psichiatra) e dell’amico.
La realizzazione artistica dell’opera filmica è il prodotto dell’attività culturale dell’Associazione Sukakaifa – che ne ha avuto l’idea originaria – e dell’incontro con lacollaborazione con la Film Commission Regione Siciliana che ne ha riconosciuto il valore e sostenuto il progetto.
Il viaggio di Malombra, attenzione, è un film che non ha niente a che vedere, si rassicuri il pubblico, né con gli effetti speciali e soporiferi, né con i personaggi di tanta cinematografia fumettona o fiction e allegretta soap opera della tantaspicciola jouissance a perdere.
Il viaggio di Malombraesplora profondità del sentire, dell’immaginare produttivo e della combinatoria fantastica che soltanto gli infiniti gradi di libertà del pensiero onirico e delirante dei sogni può mettere in giro nella mente e nel vissuto di ciascuno, e che il poeta, come il folle, condivide come una concreta navigazione esistenziale ammiccante e stuporosa. Un regista, come nel caso de Il viaggio di Malombra, dal repertorio dell’immaginazione degli “ossessi” della varia schizofrenia, che immobilizza il tempo e gli eventi, prendendone il potenziale e l’ipotetico (possibile e impossibile) per associarlo (fa un montaggio) in immagini composite e coerenti, usando la ragione della fantasia: quella facoltà della mente che è “unaspecie di macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che rispondono al fine” (Italo Calvino).
Così entriamo nel vivo tematico delle temporalità immobilizzate (personificate dai vari personaggi in scena, e catturate dalle inquadrature che ne raccontano l’erranza) del film di Rino Marino, Il viaggio di Malombra. E la sua strutturazione, crediamo, sia da individuare nella ripetizione e nell’accumulo sfaccettati che tessono e filano lo svolgersi delle storie nell’unicità onirico-delirante che taglia la vita della follia in azione ( e qui la follia, come negli altri lavori teatrali e cinematografici precedenti di Marino, non è da leggersi come una malattia clinica (così cara a certa ufficialità medica e popolare; qui, semmai, è alla “malattia” della ragione e dell’ideologia classico-moderne che si reagisce!).
È nella ripetizione – ripetizione e accumulazione dell’immagine onirica delle rovine straniate: case, arnesi, abiti d’altra stagione e impolverati, figure umane come alienati e manichini fissi nello sguardo e nel corpo, dei paesaggi e dei sentieri (materiali e di senso) irrigiditi dalla fissità che guarda e li guarda, o nell’ossessiva percezione visiva e auditiva del bambino-adulto-bambino-adulto (Malombra), che in flashback, simmetria e dissonanza d’ordini, narra del suo viaggio, delle sue soste e dell’idea fissa e in cerca del leggendario personaggio che gli ha salvato la vita – che si trova la poesia artistico-filmica di Rino Marino, la poesia del tempo e delle ragioni che la razionalità standard non può avere.
Anzi nega, criminalizza, rinchiude, isola come nella Nave dei lunatici (spettacolo teatrale dello stesso Marino), ne la Liturgia dei miserabili (un cortometraggio e precedente), o nel recente lavoro teatrale Ferrovecchio, lo spettacolo in lingua siciliana che drammatizza l’azione dei due personaggi in scena con l’immobilità del movimento in quiete, com’è tipico del teatro di Beckett.
Nel film Il Viaggio di Malombra le scene dell’immobilità del tempo e dei personaggi che la incorporano, nonostante i segni della caducità, sono più raccontati e mossi.
È l’intreccio delle inquadrature (esterne e interne) infatti che offre allo spettatore l’andatura spazio-temporale di quelle vite dislocate e ricamate, e con cui l’autore dell’opera filmica familiarizza avvalorandone artisticamente il vissuto reale. E la tessitura che il regista (anche ideatore e sceneggiatore) opera con il montaggio delle varie scene, dopo essere state colte tra campi lunghi e cattura del dettaglio: una faccia o un addome in sussulto; uno sguardo perplesso e dubbioso, o fisso, spaesato, allucinato; l’ilarità di un vagabondo demenziale; l’erotico e il fuoco metaforico che incontra il personaggio e lo lascia fuso con il suo sogno ricorrente (simbolo costante delle metamorfosi dei viaggiatori in cammino per una metà); l’ambulante del pappagallo indovina per le strade deserte del paese; un prete che spizzica semi di zucca e sputa dalla finestra mentre deruba della magra elemosina racimolata da tre vecchietti di strada, etc.
C’è del delirio po(i)etico in transito e all’arrivo in questo nuovo film del regista castelvetranese. È il delirio del pensiero, della parola e dell’immagine della memoria fantastica quanto reale: la poesia filmica de Il Viaggio di Malombra. Un viaggio che si snoda nel connubio con il paesaggio altrettanto surreale che lo immerge e lo sovrasta – che gli fa sia da sfondo che primo piano– e le onde sonoredella colonna musicale di Lelio Giannetto e Alessandro Librio (non invasiva, ma puntuale e di corredo). Non meno pregnante e significativa è quella del silenzio dilagante dell’ambiente naturale circostante (vegetale e aereo) che magnetizza e concretizza in re la vita dei personaggi (qualunque sia il loro affacciarsi nella storia narrata), mentre un volo (forse di gabbiani), analogico, ne sorveglia dall’alto il procedere e le acrobazie tra una sosta e un’altra.
È il delirio così che veste e dà corpo alle singole presenze dei sogni incarnati ora in un personaggio ora in un altro, o in una atmosfera irreale e fantasmagorica che alterna alto registro lirico-fantastico (i due che in una valle bruciata dal fuoco, dall’aridità e dal deserto della solitudine aspettano la neve), o grottesco basso-comico (la scena del mercante d’attori cui Malombra si rivolge per assoldare dei teatranti, onde approntare una rappresentazione (archetipi un diavolo, un angelo, la morte) nel luogo del Cavaliere della luna (il “fantasma” che lo ha strappato alla morte grazie ad una litania magica), o completamente allucinato e schizzatamente tragico del marchese che balla con il manichino, la donna ideale della sua vita fuori orbita.
È il tempo catturato, freddato, dalla macchina da presa e messo in sintonia con il tempo vivo, caldo, del desiderio, della memoria dei folli e della vita della follia, cui ancora, la scrittura teatrale e cinematografica di Rino Marino, rende omaggio artisticamente, bloccandone gli universi simbolici e di senso.
Perché è nell’immaginario e nell’immaginazione dei folli, che non sono insani ma soggetti di altre logiche , vissuti e proiezioni reali quanto impossibili, che si trova l’articolazione e la significazione di questo tempo fiabesco e surreale che Il Viaggio di Malombra ci racconta, e con la profondità e spessore, per fortuna, che manca a tanto cinema di mercato dell’eterno presente.