A queste donne e questi uomini semplici e dall’intelligenza pronta, Gesù si rivolge con un linguaggio chiaro e senza fronzoli, che egli utilizza per coinvolgere i suoi interlocutori e mai per abbindolarli. Gesù plasma l’annuncio di Dio per le orecchie e, ancor prima, per i cuori di braccianti e contadine: tutto ciò che gli preme è che possano intendere, che abbiano accesso ad un mondo che, normalmente, è loro precluso dagli «addetti ai lavori», dottori della legge e teologi di professione. Il maestro di Nazaret viene ad annunciare un Dio dai piedi scalzi, che con parole semplici calca i sentieri impolverati della disprezzata Galilea: tutte e tutti possono udire la Sua voce e comprendere ciò che dice; nessuno è considerato inetto, ignorante, analfabeta. Gesù presenta loro un Dio che parla una lingua semplice e chiara, priva di formule incomprensibili e di concetti astrusi: un Dio contadino, come loro schietto, diretto, informale. Gesù lo rende una figura finalmente vicina, confidenziale, a portata di mano: e lo fa calandolo nel movimento vivo di un racconto, facendogli recitare un ruolo, portandolo dalla distanza del cielo alla quotidiana concretezza della terra,
dagli spazi angusti del tempio ai confini aperti della campagna. Così, con semplicità e leggerezza, Gesù mette in scena la relazione tra Dio e noi donne e noi uomini, coniando quei racconti che sono noti come
parabole, storie all’interno delle quali chi ascolta viene necessariamente coinvolto e da semplice uditore diviene, improvvisamente, protagonista.
Ogni parabola di Gesù nasce da una situazione concreta; quella del nostro racconto è rappresentata da un dialogo che ha per oggetto il tema, delicato e controverso, della
conversione: parola, oggi più che mai, abusata, che richiama alla mente costrizioni e violenze.
Ma nel suo uso originario, tanto in lingua ebraica come in lingua greca, questo termine evoca il cambiamento concreto della direzione dei propri passi e la trasformazione profonda del proprio modo di pensare: questo soltanto, per Gesù, è il senso autentico di ogni conversione che, come tale, non può mai nascere dall’imposizione ma soltanto dall’intimo convincimento. Ed è proprio questa convinzione personale ciò che le parabole raccontate da Gesù vogliono sollecitare e trasformare, nel pieno rispetto della libertà di chi ascolta. Gesù si limita ad offrire un’opportunità di riflessione: desidera uditrici ed uditori intelligenti, non ossequiosi; crede che la fede sia questione di comprensione profonda, non di sottomissione della coscienza. Così, attraverso narrazioni che fanno del coinvolgimento il cuore del loro fascino, Gesù invita i semplici che lo ascoltano a rialzare la testa e a fidarsi di quell’intelligenza che posseggono, sebbene le autorità politiche e religiose la disprezzino poiché, in ultima analisi, la temono. A queste donne e a questi uomini restituiti alla piena dignità della loro intelligenza, Gesù narra la parabola che abbiamo ascoltata.
Il primo a comparire sulla scena è il proprietario della vigna che, tra le viti del suo terreno, aveva piantato un fico, allo scopo, naturalmente, che quest’albero portasse frutto. Da tre anni, però, dice il nostro racconto, quest’uomo si avvicina all’albero e ne constata la sterilità. Di una pianta ornamentale, però, il padrone della vigna sembra proprio che non abbia che farsene: a suo giudizio quel fico non fa che occupare inutilmente il terreno. Di più: sfrutta a vuoto la terra, ovvero, letteralmente, fa ciò che compie ogni
sfruttatore: rende senza frutti un terreno potenzialmente fruttifero, lo impoverisce e vive alle sue spalle.
Si tratta, in fin dei conti, di una sorta di parassita: si nutre della terra sottostante e non produce nulla. Il parallelo con la realtà delle nostre società dell’opulenza è estremamente calzante: quasi tutti noi abitanti del cosiddetto «primo mondo» conduciamo, in fin dei conti, un’esistenza parassitaria, che si alimenta in eccesso sottraendo ad altre vite l’essenziale, senza che, peraltro, la cosa provochi scandalo o indignazione. Ma l’immagine di Gesù vale anche sotto l’aspetto personale: la sterilità che si nasconde dietro l’apparente rigogliosità delle nostre vite è la fonte più nascosta di un malessere strisciante, di un’insoddisfazione dilagante. Il frutto è l’immagine di ciò attraverso cui ciascuno, ciascuna di noi è in grado di nutrire chi gli sta accanto o le si fa incontro: e constatare la nostra aridità è fonte inevitabile di delusione e frustrazione. Per noi, certamente, ma anche per quel Dio che ci vorrebbe feconde e fruttiferi.
Dietro l’immagine del proprietario della vigna, difatti, si adombra quella di un Dio, come noi, deluso, che di fronte alla constatazione di una sterilità prolungata e avvilente, conclude sconsolato: qui non resta altro da fare che tagliare. Del resto, è ciò che farebbe ogni contadino assennato: e gli uditori di Gesù lo sanno bene, tanto che non rimprovererebbero nulla ad un padrone che ragionasse in questi termini e chiedesse loro, con tutto il diritto, di recidere un albero infruttuoso. Ma ecco che avviene l’inatteso: il vignaiolo, colui che ogni giorno ha lavorato il terreno godendo della vista di quell’albero e, probabilmente, della sua ombra ristoratrice nell’arsura estiva, chiede una proroga: «Un anno soltanto», dice. E non si tratterà di un tempo durante il quale lui resterà a guardare che cosa succederà: no, si rimboccherà le maniche.
Scaverà tutt’intorno al fico, farà tutto il possibile per smuovere il terreno dove affondano le sue radici, lo concimerà: gli dedicherà tempo, cure, amore, che è disposto a sottrarre alla cura della vigna, purché quell’albero all’apparenza inutile possa continuare a vivere. Un anno soltanto: una richiesta che fa appello alla clemenza del proprietario, che intende smuoverne il cuore attraverso l’amore che lega chi lavora la terra alla pianta che gli offre riparo dalla pioggia e ristoro durante la canicola. Il contadino farà di tutto perché quel fico amato torni a portare frutto: ma sa che il suo sforzo e il suo compito si esauriscono nelle cure date con amore e senza risparmiarsi. La certezza di una nuova fecondità non gli è data: l’albero dovrà fare la sua parte, dimostrarsi sensibile a quell’affaccendarsi premuroso intorno alle sue radici. Anche l’amore, unico rimedio efficace alla sterilità, va accolto, avvertito, sostenuto: da solo, persino lui, è incapace di restituire alla vita, di preparare la nuova fioritura.
Gesù vuole credere nella nostra capacità di portare frutto: stempera persino il pessimismo di un Dio sconsolato di fronte alla nostra persistente aridità; chiede ancora del tempo, quel bene così prezioso che ci sfugge come sabbia tra le dita e che stoltamente ci illudiamo che sia infinito.
Di più: al padrone della vigna rivolge parole chiarissime: «Se poi questo frutto non dovesse arrivare, allora
potrai tagliare l’albero: ma dovrai farlo Tu – sembra dirgli – da me non aspettarti che lo faccia».
Gesù non conosce la logica dell’ultima spiaggia: è sempre disposto ad offrire una nuova opportunità, a dare fiducia oltre ogni limite ragionevole, a concedere ancora del tempo, anche quando di tempo, ormai, sembra non essercene più.
«Aspetta ancora un poco», chiede per noi Gesù al Padre: crede fermamente che la nostra sterilità possa mutare in fioritura. Se sapremo sentire la premura delle sue mani che smuovono la terra intorno alle nostre radici, se avvertiremo la loro carezza fiduciosa, ciò che giaceva spento nei nostri tronchi secchi tornerà a germogliare, nuova linfa riprenderà a percorrere i nostri rami nudi, rivestendoli di foglie e Dio raccoglierà, insieme con noi, i frutti maturi e dolci del nostro tornare ad essere, proprio come Gesù, l’instancabile vignaiolo, pienamente umani.
Domenica 29 Aprile 2012 - Pastore
Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com