Le poesie sull’autunno che adesso gli ricordano tanto il banco di formica verde nella stanza di Richi sotto quello spicchio di cielo blu, in alto sulla parte sinistra della finestra, il blu che c’è a volte quando non è piú giorno ma non è ancora sera.
È la prima volta che a Rafael viene da pensare alle cose che non sono né prima né dopo, alle cose che stanno in mezzo e hanno in sé un poco di com’era prima e un poco di come sarà dopo. Ed è la prima volta che ha la sensazione di non riuscire a tenere un pensiero nella testa. Cioè lo pensa, quasi lo vede come fosse un disegno e poi, però, all’improvviso, non lo acchiappa piú.
Cosí va raggomitolando nel cervello, Rafael, mentre risale vicolo Grande tra i profili scombinati delle palazzine che sembrano tante facce di vecchia. Come la pizza. Quella con la mollica, i fili pelosi di cipolla e il pecorino che si mangia solo da Salvo e Cetti. La piú puzzolente, secondo sua madre, per via della cipolla, che Richi prende sulla punta della forchetta e si cala lunga lunga in bocca tipo spaghetto o verme solitario. Il verme solitario delle paure di sua madre, che ancora adesso, a volte, quando lui si dimentica di chiudere la porta a chiave, prova a entrare in bagno per controllare nel water. Viva il suo amico Richi, che si mangia le cipolle solitarie. Viva Bumma, Ciccia e Fifa, che se ne stanno tutt’e tre a zampe all’aria sotto lo spicchio di cielo tagliato tra due palazzine ad angolo. Viva il cielo cosí com’è, che si fa una sega delle poesie sull’autunno di quando andava alle elementari.
Evelina Santangelo, Cose da pazzi
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Quando uno scrittore offre un ritratto così profondo di un luogo (fisico, sociale, umano) che ci sembrava di conoscere, c’è da ringraziarlo. Perché noi sbagliavamo.
Valeria Parrella, Grazia
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A Palermo c’è un crocicchio di vicoli in pietra su cui scorrono rigagnoli d’acqua che sa di salmastro, le case hanno muri di tufo che si impregnano di umido e di pioggia, così che ce n’è sempre uno da sistemare.
In quelle strade contorte che sono il ventre della città ci sono i turisti che vanno a mangiare e a scattare le foto, c’è un teatro bellissimo con le poltrone color porpora, ci sono i lounge bar e i locali con la musica e gli schermi al plasma per guardare le partite. C’è il folclore esasperato, l’esotismo, e all’estremo opposto c’è l’avanzata di una «modernità» spesso solo esteriore, un intonaco che però non fa presa e si sbriciola sotto le unghie.
Tra questi due estremi, e soprattutto, nel quartiere Spina c’è la vita di chi ci abita. Le case un po’ buie, il salone da barbiere di Vito, la salumeria.
C’è la scuola media, quella dove vanno Richi e Rafael, anche se Richi è da un po’ che in classe non si vede. Dei due è lui il duro, quello che affronta la vita con il piglio dell’ariete e che sembra inscalfibile; il suo amico Rafael invece si porta addosso concentrate tutte le insicurezze dell’adolescenza, e pure quelle della città. Essere ragazzini non è mai una passeggiata, ma essere ragazzini nel quartiere Spina di Palermo comporta un livello di difficoltà decisamente superiore.
Se poi, come Rafael, hai una mamma-guerriera che arriva dalla Colombia e sostiene che «siccome il mondo è tondo è fatto per girarlo», rischi davvero di avere le idee un po’ confuse.
A complicare le cose, per Rafael «l’indiano» Lomunno, ci si mette proprio la scuola: Richi che non si fa vedere, e Rita, la professoressa nuova, che si ficca in testa di fare alla sua classe un corso intero su una parola: legalità. Guardando i ragazzini dritti in faccia, con il verde degli occhi che sembra «una specie di polvere magica magnetica che ipnotizza», Rita si mette a parlare di pizzo, di estorsione e di reati, di regole diverse da quella del più forte, di diritti che non sono favori, di dignità che non c’entra con il potere, e nemmeno con la paura.
E mentre il quartiere Spina e Palermo e il mondo, nella sua testa, diventano un enigma da decifrare con strumenti nuovi, a Rafael tocca il compito crudele e vertiginoso di lasciarsi l’infanzia alle spalle, e decidere cosa e chi vuole diventare.
«Era ora che Evelina Santangelo facesse i conti con la sua città», scrive Salvatore Ferlita sullaRepubblica di Palermo. E prosegue: «La Santangelo si rivela abilissima nel dar corpo all'universo adolescenziale, trovando la giusta pronuncia per i suoi giovani personaggi, disegnandone perfettamente l'immaginario. […] A configurarsi, pian piano, è un girone di poveri diavoli, di quanto in quanto attraversato da improvvisi bagliori, perennemente minacciato dal disfacimento. Il tutto, in un romanzo vibrante e viscerale».
A dodici anni dall'esordio, Evelina Santangelo conferma le sue doti di narratrice, da sempre capace di trasformare dettagli minimi in immagini potenti ed espressive, e va oltre: alla forza della scrittura e dello sguardo, Cose da pazzi unisce una profonda empatia, la ricerca di un’umanità che l'autrice ci restituisce nelle sue infinite declinazioni. «Quel che ho fatto scrivendo questo romanzo, - ha detto aRepubblica, - è stato mettermi ad ascoltare la vita di varie esistenze, anche lontanissime dalla mia, e spesso inconciliabili, per dar forma a un mondo complesso, sfuggente e non riducibile in un "così è". Ci sono pagine che potremmo sicuramente definire "civili", in Cose da pazzi, pagine profondamente "in-civili", e pagine dove il confine tra ciò che ha uno spessore "civile" e ciò che ne è la profonda negazione non è poi così chiaro. Perché la vita è così, mescolata e spesso inestricabile».
Leggendo questo romanzo attraversiamo un mondo alla rovescia, dove si è perduto il senso di cittadinanza, la cosa pubblica è uno strumento per garantire interessi particolari, i diritti sono favori da concedere e ogni azione, anche la più quotidiana, può significare complicità o resistenza; e di questo mondo Evelina Santangelo ci regala un ritratto vivo e vero, lontano tanto dalle semplificazioni di chi osserva dall’esterno, quanto dalle auto-rappresentazioni di convenienza.
Un romanzo memorabile, che non giudica ma interroga, e non si accontenta, davanti a tanta complessità, di dare un’occhiata e decretare, esclamando: cose da pazzi!
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