Poiché chi scrive non dispone della medesima versatilità e competenza, proverò a svolgere una riflessione che intende prendere le mosse da alcune considerazioni relative al rapporto tra la realtà eutanasica ed i suoi possibili risvolti sotto il profilo filosofico-religioso. Per farlo, prenderò a prestito soltanto alcuni degli ottimi spunti fornitimi dal lavoro dell’autrice, del quale condivido, anzitutto, l’approccio metodologico. Sospesi, difatti, è prima di ogni altra cosa un testo di raro equilibrio, del tutto alieno dagli sterili irrigidimenti propri della contrapposizione ideologica così diffusa nel dibattito relativo ai temi eutanasici: unico cardine del libro è il rigore argomentativo, che si accompagna ad una sensibilità spiccatissima e ad una umanità capace di travalicare gli steccati del reciproco preconcetto che caratterizza le posizioni intransigenti.
Le considerazioni, tutte di ordine generale, che vorrei svolgere, sono quattro.
1. La prima di esse riguarda il fatto che quella del cosiddetto «fine vita» è una tematica, come il termine stesso ci suggerisce, di confine e, per ciò stesso, assai difficile da de-finire, poiché tracciare confini è sempre operazione delicata ed estremamente discrezionale. La stessa sospensione richiamata dal titolo dell’opera è in effetti la condizione non soltanto intellettuale, ma esistenziale, in cui si muovono il nostro pensiero e, prima ancora, tutta la nostra vita: sospesi lo siamo prima ancora di assumerne una sia pur vaga coscienza nelle situazioni-limite che, per l’appunto, sono quelle che ci portano più in prossimità di quel confine che ci delimita e ci determina. L’unico atteggiamento onesto nei riguardi di questa consapevolezza del limite è quello di confrontarsi con la nostra finitezza, senza eluderla o illudersi di oltrepassarla: ogni discorso umano è, inevitabilmente, discorso di confine, perennemente oscillante, come noi, tra il conoscibile e l’imponderabile, tra l’indagabile e l’ignoto. Ogni tentativo di varcare quel confine che siamo è destinato al fallimento, come ben sapevano i greci: emblema di questa impossibilità come della nostra riluttanza a riconoscerla in quanto tale è Prometeo, l’uomo che per amore degli uomini ardì sfidare gli dei ed il cui irrefrenabile istinto a sconfinare Zeus dovette soggiogare con catene e ceppi. Valicare il limite è illusorio: come esseri umani vi siamo inesorabilmente ricondotti. Significativo, in tal senso, è in dialogo tra Prometeo ed il Coro nel primo atto del Prometeo Incatenato di Eschilo:
Coro: «In quale eccesso sei precipitato?»
Prometeo: «Ho distolto gli uomini dal fissare il loro destino»
Coro: «Quale farmaco hai trovato per questo dolore?»
Prometeo: «Nei loro petti ho posto cieche speranze»
Distogliere lo sguardo dal nostro destino di finitezza, ci ricorda Eschilo, è vano
2. Ecco perché anche a me, così come all’autrice, appare fuori luogo chiamare in causa argomenti di tipo religioso in un dibattito che resta sensato e proseguibile soltanto nella misura in cui esso viene mantenuto entro l’orizzonte, circoscritto e mutevole, della nostra piena umanità. Quest’ultima, come opportunamente ci ricorda l’autrice, contempla inevitabilmente una costante «evoluzione dei sistemi di valore (…) attraverso una prospettiva pluralista» (p. 163). Di qui la considerazione, anch’essa del tutto condivisa da chi scrive, secondo cui: «la prospettiva della bioetica cattolica, nella rigidità dei suoi postulati, si scontra con la necessità di adeguarsi a parametri laici, a una visione laica della vita (…) Le posizioni alternative (delle quali esempi significativi sono rappresentati dalla Tavola Valdese e da autori come Hans Küng) nascono dalla constatazione dell’irragionevolezza di poter adattare al contesto contemporaneo una metafisica universalmente accreditata» (p. 162).
Il limite dell’impostazione propria del cattolicesimo tradizionale, in effetti, mi sembra consistere nella – a mio avviso inadeguata – riproposizione di un’etica dei principî che, seppur auto-legittimata e, pertanto, valida soltanto all’interno di determinati parametri di riferimento sociali e culturali, intende proporsi (e, talvolta, persino imporsi) come universale. Si tratta, a giudizio di chi scrive, di una posizione che non recepisce quelli che l’autrice definisce «i cambiamenti di paradigma dei valori contemporanei», e che finisce per sposare una logica all’interno della quale sembra che sia la vita, con la sua contraddittorietà e la sua connaturata eccedenza, a doversi adeguare a quegli schemi inevitabilmente parziali che intendono definirla e persino normarla. A tale proposito trovo assai più convincente la proposta avanzata dal filosofo Umberto Galimberti, che propone di abbracciare un’etica del viandante che così descrive: «Con il suo sopraggiungere, l’età della tecnica ha tagliato senza esitazione le radici che affondavano l’etica nel terreno stabile dell’eterno (…)
Oggi che la tecnica non ci consente di pensare la storia inscritta in un fine, l’unica etica possibile è quella che si fa carico della processualità (…) La diversità sarà il terreno su cui far crescere le decisioni etiche (…) Fine del legalismo e dell’uomo come l’abbiamo conosciuto sotto il rivestimento della legge, e nascita dell’uomo più difficile da collocare, perché viandante inarrestabile, in uno spazio che non è garantito neppure dall’aristotelico cielo delle stelle fisse, perché anche questo cielo è tramontato per noi» [Tratto da: Umberto Galimberti, Orme del sacro, Feltrinelli, Milano, 2000, pp. 312-317]
3. La difficoltà di recepire un’impostazione processuale del discorso etico nel pensiero religioso tradizionale è dovuta, a giudizio di chi scrive, alla diffidenza che le istituzioni ecclesiastiche hanno sempre dimostrato nei confronti di ogni discorso antropocentrico. L’autrice ribadisce la centralità dell’essere umano per ciò che attiene alle scelte di fine vitae lo fa, in un primo momento, ribadendo l’imprescindibilità di ciò che chiama «principio di autodeterminazione», definendo quest’ultimo come: «un orientamento che rifiuta la possibilità di limitare la libertà individuale (…) [affermando] il principio di sovranità dell’individuo sul proprio corpo» (p. 171) o, ancora, come: «l’assoluta libertà soggettiva di valutazione del valore dell’esistenza» (p. 148)
Accanto al pieno riconoscimento di questo diritto inalienabile, però, l’autrice affianca un elemento che risulta essenziale al fine di ampliare sensibilmente il concetto di persona e di dignità umana: quello della relazione. Sono le parole di un medico intervistato dall’autrice quelle che chiariscono meglio la centralità di questo aspetto: «Penso che si debba considerare la vita di una persona umana nella sua complessità: ciò significa tenere conto della vita biologica e di quella esperienziale, biografica (…): non possiamo considerare la vita soltanto come un susseguirsi di eventi biologici Se noi accettiamo questo, ridefiniamo il concetto di sacralità della vita (…): la vita è sacra quando è in grado di mantenere una relazione (…) E, ancora, ciò che rende sacra la vita, per chi crede, è la relazione, appunto, tra Dio e uomo: altrimenti non vi è nulla di sacro» (p. 274)
Sono parole di straordinaria profondità, letteralmente intrise di un senso tutto umano della vita e di Dio: e soltanto un rinnovato umanesimo, a parere di chi scrive, potrà condurci fuori dall’immobilità delle prese di posizione dogmatiche, siano esse a favore o contro la scelta eutanasica. Se apprenderemo che relatività e relazione sono termini etimologicamente imparentati, forse saremo capaci di valorizzarli entrambi, mettendo fine a quelle rigidità che sono figlie di un assolutismo che rifiuta il dialogo ed il raffronto.
4. Vengo così all’ultimo punto, che vorrei intitolare: «elogio dell’incompiutezza». Sospesi, difatti, è un testo che si conclude riconoscendo l’impossibilità di una conclusione: altro non ci si può attendere, del resto, da un’opera che afferma con estrema onestà la relatività del bene, concependo l’eutanasia «non tanto come atto, quanto piuttosto come approccio mentale» (p. 240), che consente di comprendere «che la vita è un dono per chi crede che sia un dono, che è straordinaria e merita di essere vissuta: ma questo meritare di essere vissuta è da approfondire» (p. 222). Questo metodo dell’approfondimento costante, dell’interrogazione radicale, della legittimità della domanda di senso di fronte alla complessità della vita che eccede sempre un sistema stabile e stabilito di valori in cui sovente la si vuole racchiudere e spiegare, rende Sospesi un itinerario autentico e intenso attraverso l’insondabilità della sofferenza, amara, inseparabile ombra di ogni esistenza.
Sospesi è dunque un testo vicino alla contraddittorietà insanabile di questa nostra vita, in cui «tutto sembra destinato a non trovare una soluzione perché profondamente umano» (p. 277). Ciò sembra rispettare in modo più pieno l’incomprensibilità della sofferenza inutile, quella che la cultura ancora tutta da costruire della «buona morte» intende contrastare.
Mettendo radicalmente in discussione ciò che il dottor Giovanni Fornero definisce «sublimazione teologica del dolore e legittimazione pedagogica del patire» (cit. p. 262), Sospesi non esita a misurarsi con il dramma della sofferenza inutile che, anche nella prospettiva di una fede che voglia intraprendere un indispensabile cammino di umanizzazione, non conosce riscatto. In questo modo ce ne parla il filosofo Luigi Pareyson: «La sofferenza inutile è una sofferenza che non ha altro risultato che quello di produrre altra sofferenza (…) [dove] il proposito di sottrarsi alla rassegnazione [si accompagna alla] continua riformulazione di una domanda che già si sa essere senza risposta» [Tratto da: Luigi Pareyson, Dostoevskij, Einaudi, Torino, 1993, pp. 173-174]
Più schietto sembra pertanto, come prova a fare l’autrice, accogliere la domanda, abitarla accantonando ogni illusoria pretesa di risposta, ancora più insensata se fornita da terzi. Se avremo il coraggio e l’onestà di fare i conti con la provvisorietà che ci determina e che è tutto quanto ci è dato di constatare al di là dei personali convincimenti, saremo capaci di accogliere la legittimità delle ragioni dell’altro, anche quando queste dovessero sfuggirci. E forse, prima e al di là di una frettolosa collocazione nella prospettiva credente come risposta preventiva alla contraddizione che siamo e che, pertanto, ci affanniamo invano ad arginare, ascolteremo in rispettoso silenzio la richiesta di chi, come Piergiorgio Welby, è giunto ad affermare: «Non è il dover morire che mi tormenta, ma il dover vivere» (cit. p. 139).
Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com