Chi, come lui, annunciava la Parola di Dio alla gente comune, ai semplici, nelle piazze dei villaggi della contadina Galilea, era spesso esposto, infatti, alle critiche severe dei dottori della legge, inflessibili guardiani dell'ortodossia. La prima di queste critiche, quella più radicale, riguardava, normalmente, l'aderenza o meno alle Scritture ebraiche delle parole che venivano pronunciate: è evidente che, a giudizio di quanti erano preposti a valutarne la conformità alla legge, le parole di Gesù risultavano sconvenienti ed impertinenti, irrispettose della sacralità della tradizione.
Gesù, allora, mette immediatamente le cose in chiaro: checché ne pensino i suoi accusatori, l'insegnamento che egli sta impartendo è profondamente fedele alle istanze delle Scritture ebraiche. Questo, però, in un senso del tutto particolare, che sfugge ai suoi detrattori: Gesù, infatti, sostiene che il suo annuncio è conforme allo
spirito che da tali Scritture traspare, e che queste stesse Scritture innerva e vivifica. Quanto concretamente è scritto, di per sé, rischia di essere lettera morta, quando non, addirittura, espressione di una logica di dominio e di sopraffazione, di sudditanza psicologica e di sfruttamento sociale. Una parola, insomma, difesa da coloro che hanno tutto l'interesse a che se ne dia un'interpretazione utile al mantenimento dei propri privilegi: non una parola da
servire, dunque, ma da
asservire a logiche di dominio e di interesse.
Gesù ribalta radicalmente questa prospettiva e, vicino in questo all'espressione più fine del pensiero ebraico, intende sostenere che la fedeltà ad un insegnamento, spesso, richiede a chi intende metterlo in pratica l'esercizio di un sottile e radicale spirito di contraddizione. In sostanza: l'insegnamento va prima recepito, messo in discussione, elaborato e poi vissuto. Non si tratta di eluderlo mediante sofisticate elucubrazioni tese ad offrire una scusa a quanti non intendano ascoltarlo e realizzarlo: si tratta, molto più semplicemente, di associare sempre ogni insegnamento al cuore di Dio e a quello dell'uomo. Se tale imprescindibile legame viene reciso, allora l'insegnamento non può che risultare vano e persino pericoloso, al punto tale che rimanervi fedeli, talvolta, significa dimostrarsi capaci di contestarlo e di contravvenirvi. Una chiara esortazione alla disobbedienza, secondo i pii guardiani dell'ortodossia; un inaggirabile appello all'umanità di Dio e a quella dell'uomo, a giudizio di Gesù e di quante e quanti intendano seguirlo.
Lo spirito di contraddizione esercitato in vista di una più profonda umanità sempre da apprendere e da realizzare è ciò che dovrebbe caratterizzare ogni fede autentica, attenta a Dio come all'uomo, vicina e sensibile all'uno come all'altro, all'uno
perché all'altro. Un certo cristianesimo ecclesiastico, sia fondamentalista che ultra-ortodosso, ha perso di vista questa dinamica del cuore e del pensiero, finendo per irrigidire la fede entro l'angusto perimetro del precetto, che non va più discusso e compreso, ma ciecamente introiettato ed attuato. Con il risultato che non si guarda più a Dio e all'uomo, ma al precetto, che diviene, così, prisma attraverso cui filtrare ogni osservazione di Dio, dell'uomo e dell'amore che li unisce al di là e al di sopra di ogni legge. La rigida normatività che caratterizza queste posizioni viene a costituire la presunta certezza senza la quale la fede sembra smarrirsi, l'illusione di sicurezza a cui aggrapparsi e che identifica Dio con quella che, in realtà, è soltanto la paura di esplorare orizzonti più ampi, il rifiuto di accogliere il rischio, a cui Dio ci invita costantemente, di allargare gli spazi della mente e del cuore. La tradizione ebraica ha sempre attribuito un ruolo rilevante alla libertà d'interpretazione e di contestazione: non vi è cosa di cui non si possa discutere, persino con Dio; figuriamoci, dunque, tra esseri umani. Ciò che bisogna rifuggire è la presunzione del vero, ogniqualvolta esso viene fatto coincidere con i propri convincimenti o con la propria interpretazione delle Scritture e dei loro contenuti. Finché c'è spazio per la discussione e per il dibattito -ci insegna l'ebraismo di cui tanto noi, quanto Gesù, siamo figli- c'è speranza per una fede più umile e, quindi, venendo
umile, così come
uomo, da
humus, per una fede più umana. Ecco come ci racconta del respiro di questa tradizione il grande artista ebreo Moni Ovadia:
«Gli ebrei ricevono con la rivelazione due “Bibbie”: la
Torah she biktav e la
Torah she bealpeh, ovvero la Torah che è scritta e la Torah che è “sulla bocca”. Quest'ultima è raccolta nel
Talmud, libro non libro, risultato di secoli di discussioni di centinaia di maestri che contiene tutti i pareri, quelli prevalsi come quelli emersi nel corso delle controversie. Il
Talmud è verosimilmente l'unico libro sacro che accetti la propria rimessa in discussione, anzi, che la solleciti caldamente. Il
Talmud è il risultato del genio dialettico ed ermeneutico ebraico, “risposta” dell'uomo [sempre possibile, sempre auspicabile] alla parola divina dello scritto. Lo studio del
Talmud deve essere polemico e ha bisogno del confronto: ragion per cui non è uno studio solitario, ma necessita di almeno due persone che, con assillo, si critichino per dinamizzare il pensiero, per impedire che la sclerosi [dell'ortodossia o del fondamentalismo] li irrigidisca (...)
Il
Talmud ci insegna a non aver fretta di saltare alle conclusioni. I precetti sono santi e rispettarli è cosa santa, ma anch'essi corrono il rischio di divenire idoli dietro cui celare la pigrizia del proprio pensiero» (Tratto da: MONI OVADIA
L'ebreo che ride, Einaudi, Torino, 1998)
La «pigrizia del pensiero», come assai efficacemente la definisce Moni Ovadia, è ciò che più d'ogni altra cosa una fede autentica dovrebbe temere, mentre, malauguratamente, tocca constatare che si tratta di ciò che più sovente alcune realtà ecclesiastiche predicano, avendo di mira la costruzione di un credente il più possibile ottuso e manipolabile, citatore instancabile di versetti immancabilmente chiari e ammonitori.
Gesù voleva suggerire ancora un passo in più: la pigrizia del pensiero è certo deleteria, ma la chiusura del cuore, che spesso ne è la più diretta conseguenza, è ancora più avvilente e temibile. Per questo propone, in prima istanza, la
riconciliazione con il fratello e la sorella, che ha persino la
precedenza rispetto al presentarsi al cospetto di Dio. Al Dio che Gesù annuncia, infatti, non è possibile andare senza passare attraverso l'altro, attraverso l'altra,
nel rispetto pieno della sua diversità, che il Padre come il Figlio ci comandano di accompagnare ed accogliere nell'Amore. Senza questo atteggiamento, ogni parola presuntuosamente certa, ogni precetto arrogantemente ripetuto fino all'estenuazione, risultano vani. La volontà di Dio viene scimmiottata e ristretta entro le soffocanti mura dell'integralismo, che rassicurano gli uomini reprimendone, però, la libertà e, quel che è peggio, anestetizzandone la sensibilità verso l'altro, la sua condizione, il suo vissuto, la sua sofferenza. Gesù ed il Padre ci vogliono libere e liberi, capaci di un Amore che abbatta i confini e di una fede che non abbia paura di interrogarsi: ci spingono nella direzione di un cammino che rispetta la tradizione nella misura in cui essa non si arresta di fronte alla consuetudine ed osa, invece, vie nuove per amore della giustizia. Questo, secondo l'insegnamento di Gesù, ci può mettere in condizione, quando lo ritenessimo necessario per amore di Dio e dell'uomo, anche di contestare il precetto, persino quando esso figura esplicitamente in qualche passo delle Scritture. Osando affermare anche noi, contro ogni esortazione ad un'obbedienza alla norma che si riveli cieca ed insensibile: «Avete udito che vi fu detto (...)
Ma io vi dico»
Palermo, 17 Maggio 2012 (Veglia per le vittime dell’omofobia) - Pastore
Alessandro Esposito
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