Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
31/05/2012 09:41:57

Il Dio di Gesù

Ma il problema di Dio è più profondo. Perché, come ha scritto molto bene il filosofo Martin Buber, “Dio è la parola più vilipesa di tutte le parole umane. Nessuna è stata tanto disonorata, tanto mutilata […] Le generazioni umane hanno riversato su questa parola il peso della loro vita tormentata fino a schiacciarla contro il suolo. Giace nella polvere e ne sostiene il peso. Le generazioni umane, con i loro patriottismi religiosi, hanno lacerato questa parola. Hanno ucciso e si sono fatte uccidere per essa. Questa parola porta le loro impronte digitali e il loro sangue. Gli uomini disegnano un fantoccio e ci scrivono sotto la parola ‘Dio’. Si assassinano gli uni gli altri e dicono ‘lo facciamo in nome di Dio’. Dobbiamo rispettare quelli che proibiscono questa parola, perché si ribellano contro l’ingiustizia e gli eccessi che con tanta facilità si commettono con una presunta autorizzazione da parte di ‘Dio’. Bene si comprende che molti suggeriscano di mantenere, per un certo tempo, il silenzio sulle ‘cose ultime’ per redimere quelle parole che sono state oggetto di tanti abusi”. (M. Buber Incontro. Frammenti autobiografici ). Effettivamente, la parola “Dio” ha insanguinato molte pagine della storia e ha macchiato molte coscienze. Il che dimostra fino a che punto Dio è un incompreso, uno sconosciuto e un essere disonorato da tutta la miseria degli uomini. In tutto questo si rende presente il problema degli idoli, i falsi dei che l’uomo si costruisce per la propria utilità e il proprio vantaggio. Non si tratta di fantocci di creta o di legno. Né si tratta del sole, della luna o delle stelle. Questi erano gli idoli del passato. Gli idoli dell’uomo moderno sono altri, sono più sottili, più sofisticati e, naturalmente, più attraenti e influenti: il denaro, il potere, il successo, il prestigio, il benessere e il confort, il consumo, la politica, l’ideologia. Sono questi i veri e propri idoli dell’uomo moderno, idoli di morte e devastazione, quando si convertono in assoluti cui si sacrifica l’onestà, la giustizia, l’amore e la pace. Per questo è così importante il tema di Dio, correttamente impostato e correttamente compreso. Perché solo esso ci può liberare, in un modo realmente efficace, dai falsi dei, che come fantasmi di violenza e di morte dominano il nostro mondo. Se il Dio invisibile, irraggiungibile, incomprensibile, il Dio nascosto (Is 45,15) e assolutamente ineffabile (Sal. 139,6) si è reso presente e manifesto tra gli uomini per mezzo di Gesù; o, più esattamente, se Dio si è rivelato e si è dato a conoscere nella persona e nell’opera di Gesù di Nazareth (Gv 1,18; 14,9, Col 1,15), Dio è allora il Dio della solidarietà con l’uomo. Perché, effettivamente, in questo consistette la vita di Gesù: in un cammino d’incessante solidarietà. In questo senso, la prima cosa che bisogna ricordare è la vicinanza di Gesù a tutti gli emarginati di quella società, ossia, la vicinanza a tutti gli esclusi dalla solidarietà. La proclamazione delle beatitudini risulta eloquente da sola. Gesù assicura che i poveri, quelli che soffrono, quelli che piangono, i diseredati, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i perseguitati, gli insultati e i calunniati sono già felici (Mt 5,1-12; Lc 6,20-23). Chiaramente, egli afferma, così, la sua vicinanza profonda e fondamentale a tutti i disprezzati ed emarginati della terra, a tutti quelli che non possono far valere i propri diritti in questo mondo, giacché questo era propriamente il senso che avevano i poveri a quel tempo. Nello stesso senso bisogna leggere e interpretare l’affermazione programmatica di Gesù nella sinagoga di Nazareth, quando applicò a se stesso le parole profetiche di Isaia: “Lo Spirito del Signore è su di me, per questo mi ha unto, e mi ha inviato ad annunziare un lieto messaggio ai poveri, ad annunciare la libertà ai prigionieri e la vista ai ciechi, per mettere in libertà gli oppressi, per proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19; Is 61,1-2). I carcerati, i prigionieri, gli incatenati, quelli che non vedono e hanno perso tutta la luce e la speranza incontrano in Gesù la loro salvezza. Che è esattamente quello che Gesù dice rispondendo a coloro che gli chiedono, da parte di Giovanni il battista, se sia lui colui che doveva venire o se non si dovesse aspettare un altro (Mt 11,4; Lc 7,21). Ma c’è di più. Perché il radicalismo che Gesù mostra nella sua predicazione, trova la sua spiegazione nel progetto della solidarietà. Detto in un’altra maniera, Gesù fu così radicale nella sua predicazione e nella sua vita, perché a questo lo portò la sua solidarietà con l’uomo. Come è noto, c’è stato chi ha tentato di spiegare questo radicalismo con la convinzione di Gesù dell’imminenza del regno di Dio così come dell’imminenza della fine del mondo. Tuttavia, non pare che sia necessario ricorrere a tali speculazioni per spiegare una cosa che in sé è più semplice. Quando Gesù dice ai suoi discepoli di non opporsi al malvagio, di porgere l’altra guancia a chi li schiaffeggia e di dare anche il mantello a chi gli vuol togliere la tunica (Mt 5,38-42), sta indicando loro chiaramente che devono andare più in là del diritto e della giustizia, fino a lasciarsi spogliare, se è necessario. Perché solamente così si può creare un dinamismo di solidarietà tra gli uomini. In questo stesso senso sarebbero da interpretare le parole severe di Gesù sull’atteggiamento di fronte al denaro (Mt 6,19-34) e, soprattutto, le esigenze che impone ai suoi seguaci: non devono portare nulla che esprima qualche tipo di ostentazione (Mt 10,9-10), non devono mai somigliare ai dirigenti dei popoli e delle nazioni (Mt 20,26-28), non devono desiderare vesti particolari, né aspirare a titoli o primi posti. (Mc 12,38-40). Inoltre, c’è da tener presente il tipo di persone che solevano accompagnare Gesù: di certo erano preminentemente persone di cattiva fama, persone che godevano di bassa reputazione e stima: incolti, ignoranti, coloro la cui ignoranza religiosa e il cui comportamento morale sbarravano, secondo le convinzioni dell’epoca, la porta di accesso alla salvezza. Ed è precisamente questo tipo di persone che Gesù definisce come la sua vera famiglia (Mt 12,50; Mc 3,35; Lc 8,21); egli convive con loro, con loro appare in pubblico costantemente, dando adito alle mormorazioni e ai pettegolezzi più rozzi (Mt 11,19; Lc 7,34;). In realtà, cosa vuol dire tutto questo? Già lo abbiamo visto: Dio si rivela in Gesù, nella vita e nel comportamento di Gesù. Dunque, il Dio che si dà a conoscere in Gesù è il Dio della vicinanza e della solidarietà. Un Dio attento ai bisogni fondamentali dell’uomo, un Dio per nulla minaccioso verso il peccatore e l’ignorante, ma tutto il contrario. Perché è il Dio della solidarietà con l’uomo, soprattutto con il debole e l’emarginato. Così è il Dio di Gesù. In definitiva, un Dio che risulta scandaloso per lo spirito e la mentalità di taglio puritano e di stile farisaico. D’altronde Gesù lo ha detto testualmente: “Beato colui che non si scandalizza di me” (Mt 11,6; Lc 7,23). Il Dio di Gesù non è allora il Dio delle tribù nomadi del deserto, il Dio sconosciuto, che si perde nella notte dei tempi; non è il Dio che si rivelò a Mosè nel roveto ardente (Es 3, 1-6) e nella potente teofania del Sinai (Es 19, 16-19); o il Dio che si rivelò a Isaia nel Tempio, fra angeli, fumi e tremori (Is 6,1 sgg); il Dio di Gesù non è il Dio degli eserciti, Yahvè Sebaot, che sconfigge e distrugge i suoi nemici…. Il nome proprio di Dio, per i cristiani, è Padre. Ed è fondamentale sottolineare, sin da subito, che non si tratta semplicemente di una metafora o di un paragone, ma di una realtà sorprendente e commovente. Dio è creatore perché dà la vita in generale. Ma è Padre perché dà la propria vita, cioè, stabilisce una comunione di vita e di intimità fra lui e quelli che chiama suoi figli. Nell’Antico Testamento Dio è designato, talvolta, con l’appellativo di Padre. Tuttavia si deve tener conto del fatto che questa denominazione di Dio come Padre è intesa, nell’Antico Testamento, esclusivamente in rapporto al popolo di Israele in generale o al re (2Sm 7,14; 1Cr 17,13; Sal 2,7), in maniera che mai si parla di Dio come Padre di un individuo particolare. D’altra parte, l’idea del “padre” nella tradizione di Israele non evocava un sentimento d’intimità e vicinanza, ma l’autorità e il rispetto, un’autorità alla quale obbedire in qualsiasi circostanza (Es 20,12; 21,15.17; Prv 23,22).                                                                                                                                Allora, di fronte a tali idee riguardo a Dio, la rivelazione del Nuovo Testamento su questo tema si mostra come una novità inaudita. Innanzitutto per la frequenza con la quale si utilizza l’appellativo Padre per riferirsi a Dio. In secondo luogo, perché qui il figlio non è il popolo in generale, ma ogni credente in particolare (Mt 5,44-48; Lc 6,36; Rom 8,15; Gal 4,6). In terzo luogo, perché, secondo l’evangelo di Giovanni, ogni concezione di Dio che non corrisponde a quella di Padre è falsa (Gv17,3; 20,17). Infine – e soprattutto – perché il cristiano può e deve dirigersi a Dio, non solo con l’espressione generica di Padre, ma anche con la parola Abbà (Rom 8,15; Gal 4,6; cfr. Mc 14,36), parola tratta dal linguaggio balbettante dei bimbi piccoli e che esprime affetto, intimità e tenerezza, di modo che la sua traduzione più esatta corrisponderebbe al termine “papà”. A nessun israelita sarebbe potuto succedere di chiamare Dio “Papà”. Perché ciò sarebbe stato una mancanza di rispetto inconcepibile. Al contrario, il cristiano può e deve dirigersi a Dio con la più assoluta confidenza (parresìa), con l’intimità e la vicinanza con la quale un bimbo piccolo sta tra le braccia di suo padre. Da qui la novità inaudita che portò Gesù con la sua rivelazione di Dio, come Padre vicino, affettuoso e intimo. Di modo che ogni concezione di Dio che non corrisponde a ciò è falsa. Tuttavia, la relazione con Dio, come Padre, comprende qualcosa di più. Si tratta dell’imitazione del Padre del cielo. Perché i figli devono somigliare al padre. Per questo Gesù dice: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, per essere figli del Padre del cielo, che fa splendere il sole sui malvagi e sui buoni e manda la pioggia sui giusti e sugli ingiusti... Siate dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,44-48). Perché Dio “è benevolo con gli ingrati i malvagi” (Lc 6,35). Da qui l’invito a “essere misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36). Cosa vuol dire Gesù con queste parole? Non si tratta del fatto che Dio ama tutti allo stesso modo. Si tratta piuttosto di comprendere che la bontà sconcertante del Padre del cielo deve tradursi in una bontà simile nei suoi figli sulla terra. E così saranno “figli dell’Altissimo” (Lc 6,35). Ossia, quelli che non tendono a comportarsi come il Padre del cielo, in realtà non sono figli suoi. Perché i figli assomigliano al Padre. Per ultimo, si tratta di rispondere a una domanda elementare: perché siamo figli di Dio? La risposta a questa domanda si trova, mirabilmente formulata, negli scritti dell’apostolo Paolo. Nella lettera ai Romani, l’apostolo dice: “Figli di Dio sono infatti tutti coloro che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio. Non riceveste uno spirito che vi rende schiavi e vi volge al timore; ma riceveste uno Spirito che vi rende figli, nel quale gridiamo: Abbà! Padre! Questo medesimo Spirito assicura al nostro spirito che siamo figli di Dio; allora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi con il messia” (Rom 8,14-16). E nella lettera ai Galati (4,4-7) si ripete lo stesso pensiero: siamo figli di Dio perché lo stesso Dio ci ha dato il suo Spirito. Ossia, ci ha dato la sua stessa vita; e con la sua vita ci ha dato il suo amore (Rom 5,5). Di conseguenza, si tratta del fatto che la vita stessa di Dio è stata data all’uomo (Gv 6,57; 1Gv 4,9; 5,11;). Esiste, quindi, una comunione di vita, come tra un figlio e suo padre. Siamo, pertanto, della stessa famiglia di Dio. Nel Nuovo Testamento si parla con frequenza dello Spirito, la cui azione viene presentata per mezzo di simboli: la colomba (Mt 3,16), il vento (Gv 3,8; At 2,2), l’acqua (Gv 7,38-39), la pioggia che irriga (cfr. Sal 63,2), il liquido dove ci si immerge (1Cor 12,13), il sigillo che rende i fedeli proprietà di Dio (2Cor 1,22; Ef 1,13). Ebbene, cosa vuol dire tutto questo? Per rispondere a questa domanda sarà necessario analizzare più in concreto come è presentato lo Spirito negli scritti del Nuovo Testamento.   a) Lo spirito profetico   Nel giudaismo del tempo di Gesù si aveva la convinzione che lo Spirito fosse sinonimo di “ispirazione profetica”. Sappiamo che Gesù fu riconosciuto come profeta dal popolo (Mt 21,11.45; Mc 6,15; 8,28; Lc 7,16; Gv 4,19; 6,14; 7,40.52; 9,17) e anche in qualche maniera dagli stessi farisei (Lc 7,39; Mc 8,11) e senza dubbio dai discepoli (Lc 24,19). Ma, soprattutto, lo stesso Gesù considerò se stesso fra i profeti (Mc 6,4; Lc 4,24; Gv 4,44; Lc 13,33; Mt 23,31. 34. 37;). Tutto ciò fa pensare, ovviamente, che lo Spirito che si relaziona tanto strettamente con Gesù nei vangeli è lo spirito profetico. Allora, l’importante qui è comprendere non solo che lo Spirito di Dio è con Gesù, ma, soprattutto, che questo Spirito orienta e dirige Gesù in una direzione molto chiara e precisa. E’ lo Spirito che spinge Gesù allo scontro con i poteri di questo mondo (Mt 4,1) e che agirà in favore dei discepoli quando questi saranno condotti nei tribunali, dinanzi ai governatori e ai re (Mt 10,16-20; Lc 12,12); è lo Spirito che porta Gesù verso la regione dei poveri, la Galilea (Lc 4,14), e soprattutto che fa proclamare a Gesù la liberazione per gli oppressi e i disprezzati, così come la buona notizia per i diseredati della terra (Lc 4,18-21; cfr Gv 3,2). Qui è importante rendersi conto che a questo punto si tratta di definire quali sono i sentieri dello Spirito; quando lo Spirito di Dio guida qualcuno, lo conduce per questi sentieri: lo scontro con i poteri di questo mondo e la liberazione degli oppressi. Sappiamo, però, che questo stesso Spirito, che Gesù ha ricevuto nel battesimo e che ha effuso nel momento della sua morte (cfr. Mc 15, 37-39; Gv 19, 34) si è comunicato alla comunità dei credenti (At 2,1-4), indicando così un orientamento preciso alla chiesa: allo stesso modo di Gesù, anche la comunità dei suoi seguaci deve mettersi dalla parte dei poveri e sempre a favore di essi, anche se questo porta con sé il dover comparire davanti ai poteri di questo mondo e ai suoi tribunali. Perché questo è l’orientamento che lo Spirito profetico indicò a Gesù.   b) Lo Spirito e la Chiesa   Nel libro degli Atti degli Apostoli si sottolinea specialmente la stretta connessione che esiste tra lo Spirito e la Chiesa. La Chiesa è la comunità dello Spirito, la cui presenza e azione le comunicano la vita e l’orientamento concreto che essa deve seguire. Ma, in sostanza, come orienta lo Spirito la Chiesa? In quale direzione la porta? A questo punto occorre analizzare brevemente quattro punti fondamentali:   1) Lo Spirito crea la comunità. Perché il frutto immediato dello Spirito è la formazione della comunità cristiana. Per questo, alla venuta dello Spirito segue immediatamente, nel libro degli Atti, il racconto della vita comunitaria (At 2,42-47).   2) Lo Spirito spinge all’audacia. Il termine tecnico che utilizza il Nuovo Testamento è il sostantivo parresìa, che in generale ha il senso di libertà, coraggio e, appunto, perfino audacia nell’annuncio della buona notizia (cfr. Mc 8,32; Gv 7,26; 10,24; 16,29; 18,20). Esattamente come lo faceva Gesù, si tratta di dire senza ambiguità, senza titubanze, con estrema franchezza, quello che si ha da dire; in maniera che gli altri lo comprendano e che risulti qualcosa di trasparente per tutto il mondo. Dire quel che si ha da dire anche in condizioni avverse, quando la sicurezza personale e perfino la stessa vita si vedono minacciate. Questo è quello che Gesù fece nel suo ministero pubblico. Ed è questo propriamente ciò verso cui lo Spirito spinge la sua Chiesa. La predicazione dell’evangelo suppone e contiene un pericolo e una minaccia per chi lo annuncia.   3) Lo Spirito difende sempre la libertà. Di fronte alla mentalità religiosa ristretta e legalista dei cristiani giudaizzanti (cfr. At 11,2-3; 10,13-14; 15,1.5; 21,20-21), lo Spirito si rende presente specialmente nel gruppo degli ellenisti (At 6,3.5.10; 7,55;), i quali mostravano una notevole libertà di fronte al tempio (At 7,48-50) e alla legge (At 15,1). Per questo Stefano afferma che i giudei resistevano allo Spirito santo (At 7,51). Perché lo Spirito spinge verso la libertà, libertà di cui mancava la religiosità ebraica (At 10,47; 11,12-17; 15,8.28).   4) Lo Spirito apre alla novità. Lo Spirito non ripete le cose del passato, ma proietta verso il futuro (Gv 16,13). Lo Spirito di Dio è quello che – dice la scrittura – “fa nuove tutte le cose” (Ap 21,5).  Una comunità cristiana animata dallo Spirito sarà dunque sempre capace di dare nuove risposte ai sempre nuovi bisogni dell’umanità.   c) Spirito di Dio, spirito dell’uomo   I due sensi fondamentali in cui Paolo utilizza la parola “spirito” sono: lo Spirito di Dio (ad esempio, Rom 8,16; 1Cor 2,10) e lo spirito dell’uomo, ossia, l’io con le sue intenzioni (cfr. Rom 1,9), i suoi sentimenti (1Cor 16,18) e l’autocoscienza (1Cor 2,11). Però qui c’è da rilevare che spesso risulta difficile sapere con esattezza di quale spirito si tratti in un determinato testo. Da qui l’indecisione dei traduttori nell’uso della maiuscola o della minuscola in riferimento allo Spirito. Fatto che ci sta a indicare una difficoltà più profonda, quella di stabilire la giusta relazione tra lo Spirito di Dio e lo spirito dell’uomo. In questo senso, pare che si possa parlare di una corrispondenza fondamentale fra lo spirito dell’uomo e lo Spirito di Dio (cfr. Rom 8, 26-27), sebbene lo Spirito di Dio sia sempre sovrano in relazione all’uomo. Inoltre, lo Spirito divino abita nei credenti (Gv 14,17b; Rom 8,9), perché se qualcuno non ha lo Spirito del Cristo, questi non è cristiano (Rom 8,9-10), fino al punto da poter dire che sono figli di Dio solamente quelli che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio (Rom 8,14). Questa coincidenza profonda tra lo Spirito di Dio e lo spirito dell’uomo comporta una conseguenza fondamentale: l’azione di Dio sull’uomo tende sempre alla realizzazione di quest’ultimo nel raggiungimento delle sue aspirazioni più profonde, come sono la felicità, la pace, la speranza, la libertà e l’amore. Dal che si deduce che l’azione della Chiesa, dei credenti, è corretta nella misura in cui è orientata alla realizzazione dell’uomo nel raggiungimento delle aspirazioni più profonde della persona.   d) Il difensore dei cristiani   Secondo la teologia dell’evangelista Giovanni, la funzione principale dello Spirito consiste nell’essere il consolatore (nel senso di colui che elimina alla radice la causa della sofferenza, secondo il significato che nella lingua greca ha il termine paràclito), il difensore e il protettore permanente che dà sicurezza ai credenti (Gv 14,16;) e che spinge alla testimonianza e alla libertà (Gv 15,26-27), sostenendo i seguaci di Gesù quando si vedono minacciati dall’ostilità del mondo (Gv 16,7-11). Ma aver bisogno di un avvocato difensore in modo permanente suppone il dover affrontare difficoltà, complicazioni e conflitti. Da qui il destino dei cristiani che si lasciano guidare effettivamente dallo Spirito, giacché esso non fa che scoprire e ricordare il senso del messaggio di Gesù (Gv 14,26), mediante l’esperienza che produce e che porta alla conoscenza della verità (Gv 8,31-32). Però, d’altra parte, sappiamo che il “mondo”, l’ordine presente, basato sulla violenza istituzionalizzata, odia Gesù (Gv 7,7) e perseguita a morte i suoi seguaci (Gv 15,18-25; 16,2). Il che vuol dire ovviamente che una Chiesa che non si vede in queste difficoltà e conflitti deve domandarsi seriamente se davvero possiede lo spirito di Gesù. Perché è evidente che dove c’è fedeltà a Gesù e adesione al suo messaggio, ci sono anche, inevitabilmente, persecuzioni da parte del mondo e scontri con l’ordine costituito.   Violairis - 30 maggio 2012