La prima variabile è la distinzione tra intelligenza e ragione, la seconda è la distinzione tra intelligenza umana e intelligenza artificiale. La prima variabile richiede una particolare competenza filosofica, la seconda richiede una particolare competenza scientifica. Non ho purtroppo né l’una né l’altra, quindi – scusandomi con il nostro lettore – sono costretto a semplificare il contenuto della sua lettera in questo modo: lascio da parte la questione dell’intelligenza artificiale e mi permetto di accorpare intelligenza e ragione, pur sapendo che sono facoltà distinte, ma sapendo anche che sono inseparabili (separandosi si snaturano) e una non sussiste senza l’altra. Entrambe hanno a che fare con la facoltà di pensare e, pensando, conoscere, afferrare con la mente, collegare i pensieri tra loro e associarli alle parole, organizzare e mettere in relazione concetti e proposizioni.
«Intelligenza», come si sa, viene dal latino
intus legere, «leggere dentro» (dentro le cose, i fenomeni, le situazioni, la natura, la storia, dentro se stessi), quindi esplorare la realtà andando il più possibile a fondo. La ragione svolge sostanzialmente le stesse funzioni, ha lo stesso compito, per il quale può avvalersi dei suoi particolari «lumi»: capire e discernere. La risposta a questa lettera prescinde quindi dalle due variabili accennate e si concentra sulla questione centrale sollevata: quella del rapporto tra fede e ragione. È una questione vecchia come l’uomo, sorta nel momento lontanissimo in cui l’uomo, nel corso della sua lenta evoluzione, ha cominciato a pensare, a ragionare e anche a credere: a credere in un Aldilà, in un Dio, in un Altro. Da quel momento ci sono stati uomini e donne che, in base alle loro esperienze e ai loro ragionamenti, hanno concluso che Dio non esiste e quindi non ha senso credere in lui e a lui affidarsi, mentre altri uomini e donne, in base alle loro esperienze e senza affatto rinunciare a ragionare, credono in lui e a lui si affidano. L’esercizio della ragione induce i primi a non credere in Dio, mentre nei secondi fede e ragione convivono senza escludersi, anzi interagiscono tra loro stimolandosi a vicenda. Si pone quindi sin dai tempi antichi il problema: in che rapporto stanno ragione e fede? La ragione smantella la fede? La fede addomestica la ragione? Si combattono? Si danno la mano? Sono sorelle, o quanto meno cugine, o invece sono estranee l’una all’altra, non hanno nulla da condividere, coabitano in una stessa persona ma non si parlano, vivono come «separate in casa», come se dovesse essere necessariamente così, che la fede non ragiona e la ragione non crede? Come se chi crede dovesse per forza non ragionare e chi ragiona dovesse per forza non credere? La questione, di per sé già abbastanza intricata, lo diventa ancora di più se ci si chiede in che rapporto stanno ragione e fede con Dio? Questa domanda non interessa, ovviamente, chi non crede in Dio, ma interessa molto chi crede in lui.
Il fatto che il famoso serpente seduttore di Adamo ed Eva fosse «il più astuto» di tutti gli animali dei campi creati da Dio (Genesi 3, 1) – e non c’è astuzia senza qualche forma spiccata di intelligenza – e l’altro fatto che Eva, cedendo al consiglio del serpente, avendo «visto che il frutto dell’albero era buono a mangiarsi, che era bello a vedere, e che l’albero era desiderabile per diventare intelligente, prese del frutto, ne mangiò e ne dette al suo marito…» (Genesi 3, 6) – questi due fatti significano forse che l’esercizio dell’intelligenza allontana, in un modo o nell’altro, da Dio, perché diventando intelligente l’uomo diventa critico, e non essendoci limiti alla critica, essa investe anche Dio, mettendo in luce le contraddizioni tra quello che si dice di lui e quello che si constata nella storia umana, individuale e collettiva, giungendo così prima a mettere in dubbio e poi a negare la sua esistenza?
È l’intelligenza umana l’artefice principale dell’incredulità e la causa prima dell’avvento della civiltà secolare nella quale siamo tutti immersi? È perché ha cominciato a ragionare che tanta parte dell’umanità (quanto meno in Occidente) ha cominciato (e continuato) a non credere? Insomma: è perché sono diventati intelligenti che Adamo ed Eva sono stati cacciati dall’Eden della loro fede ingenua e infantile? L’uomo «diventato adulto», cioè intelligente, può solo prendere le distanze dalla fiaba di un Dio buono che amorevolmente governa il nostro mondo e la nostra vita? O invece bisogna capovolgere il discorso e dire con il credente antico: «Io ho più intelletto di tutti i miei maestri perché le tue testimonianze sono la mia meditazione. Io ho più intelligenza dei vecchi, perché ho osservato i tuoi precetti… Mediante i tuoi precetti io divento intelligente…» (Salmo 119. 99-100. 104). E ancora: «l’intelligenza è conoscere Dio» (Proverbi 9, 10), perché è Dio che l’ha formata e l’aveva accanto a sé quando ha creato i mondi: «Io, l’Intelligenza, ero presso di lui come un artefice, ero del continuo esuberante di gioia…» Proverbi 8, 30), tanto che l’apostolo Paolo può dire che Dio ci ha dato «ogni sorta di sapienza e d’intelligenza» Efesini 1, 8).
Al tempo stesso troviamo, sempre in Paolo, affermazioni come queste: «I Giudei [cioè i religiosi] chiedono miracoli, e i Greci [cioè i laici, i secolarizzati] cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per i Greci pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio, perché la pazzia di Dio è più savia degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte degli uomini» (I Corinzi 1, 22-25). L’intelligenza di Dio è dunque pazzia per la ragione umana? Il nostro lettore sostiene che «la ragione può essere solo dalla parte della fede». Ne è proprio sicuro? È vero che la fede ha le sue ragioni, ma sono, appunto, ragioni della fede, non della ragione. È ragionevole il perdono del peccatore? No, sarebbe più ragionevole la sua punizione. È ragionevole che l’innocente Gesù «muoia per gli empi»? No, sarebbe più ragionevoli che gli empi muoiano e l’innocente viva. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che c’è una logica di Dio molto diversa da quella degli uomini. C’è una logica di Gesù che contraddice quella degli scribi e dei Farisei e anche quella dei suoi discepoli. C’è una logica del Regno, che capovolge la logica del mondo. Il fariseo Saulo ragionava in un modo, l’apostolo Paolo ragiona in un modo opposto. Ci sono appunto due logiche, due razionalità, due modi di ragionare. Non è che chi non crede ragioni meglio di chi crede, o inversamente che chi crede ragioni meglio di chi non crede. Non è che chi crede sia più intelligente di chi non crede, o al contrario che chi non crede sia più intelligente di chi rede. Si tratta di due diverse visioni del mondo, dell’uomo e di Dio che comportano due logiche differenti. Io non penso che la scienza metta in pericolo la fede; ci sono scienziati atei e ci sono scienziati credenti. Non penso che l’intelligenza porti a non credere: né la fede né l’incredulità nascono da un ragionamento, anche se poi entrambe portano le loro ragioni; l’intelligenza entra in gioco dopo, non prima, sia per l’una che per l’altra.
Ma allora che rapporto c’è tra fede e ragione? Mi limiterò a due indicazioni, tra le tante possibili. [a] La prima è che proprio all’inizio del suo ministero pubblico Gesù ha chiesto questo a chi lo ascoltava: «Ravvedetevi e credete all’evangelo» (Marco 1, 15). «Ravvedetevi » è la traduzione del verbo greco
metanoéite, che letteralmente significa «cambiate mentalità», «cambiate modo di ragionare». Gesù non chiede di rinunciare alla ragione, ma di cambiare modo di ragionare. C’è, secondo lui, una vecchia razionalità da abbandonare, e una nuova da adottare. [b] La fede è figlia della Parola di Dio, non della ragione, ma non è di per sé ostile alla ragione, nel senso che non è né assurda né irrazionale. Fede e ragione possono entrare in conflitto (non sono «le due ali che insieme ci elevano fino a Dio»), ma non sono necessariamente nemiche. Esiste, certo, una ragione che non crede, come esiste, purtroppo, una fede che non ragiona. Ma la fede può ampliare l’orizzonte della ragione, e la ragione può aiutare la fede a non diventare credulona, superstiziosa o fanatica. Ad Anselmo d’Aosta (1033-1109) risale la bella espressione: «la fede che cerca di capire» (in latino,
fides quaerens intellectum). In una sua preghiera egli dice: «Non cerco di capire per credere, ma credo per capire».
Paolo Ricca -
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